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cronaca

Suicidio in carcere di Alex Riccio: il ministero della Giustizia responsabile civile nel processo di Ivrea

Vito Alexandro Riccio si era tolto la vita pochi mesi dopo aver ucciso a coltellate la moglie e il figlio di 5 anni

Vito Alexandro Riccio si è tolto la vita nel carcere di Ivrea

Vito Alexandro Riccio si è tolto la vita nel carcere di Ivrea

Il suicidio di Alexando Vito Riccio, avvenuto il 26 settembre 2021 nel carcere di Ivrea, ha aperto uno squarcio sulla gestione medico-psichiatrica dei detenuti e sulla vigilanza nelle strutture penitenziarie. Mercoledì 22 gennaio si è tenuta ad Ivrea l'udienza preliminare del processo nato dall'inchiesta condotta sul carcere dalla Procura eporediese.

Nel corso dell'udienza predibattimentale il Ministero della Giustizia è stato citato come responsabile civile su richiesta degli avvocati di parte civile Giuseppe Lopedote e Alessandro Di Matteo, che rappresentano la famiglia del detenuto. La decisione è stata presa dal gup Davide Paladino, e l’udienza preliminare è stata aggiornata a giugno per consentire al Ministero di partecipare al processo attraverso un proprio avvocato.

Cosa significa che il Ministero della Giustizia è responsabile civile? In questo caso, il Ministero, che sovrintende il sistema carcerario, potrebbe essere ritenuto legalmente responsabile per eventuali errori o mancanze da parte del personale penitenziario. Se venisse accertato che ci sono state negligenze nella gestione del detenuto – come la mancata vigilanza o l’insufficienza di cure psicologiche – il Ministero potrebbe essere condannato a risarcire i familiari di Riccio. Si tratta di una questione non solo economica, ma che solleva interrogativi più ampi sulla tutela dei diritti umani nelle carceri italiane.

Il suicidio di Vito Alexandro Riccio, 39 anni, avvenuto cinque mesi dopo il suo arrivo nel carcere di Ivrea, apre domande sulla gestione dei detenuti fragili e sulle responsabilità del sistema carcerario. Riccio, rappresentante di commercio e figlio di un poliziotto penitenziario in pensione, aveva condotto una vita ordinaria fino al 20 gennaio 2021, quando uccise la moglie Teodora Casasanta e il figlio Ludovico di soli cinque anni nella propria casa a Carmagnola. Prima di allora, era incensurato. Dopo l’omicidio, aveva tentato il suicidio bevendo candeggina e gettandosi dal secondo piano, ma era sopravvissuto.

La moglie Teodora Casasanta e il figlio Ludovico 

Arrestato il 29 gennaio 2021, fu trasferito prima al carcere Lorusso e Cutugno di Torino e poi, il 17 aprile, a Ivrea. Qui, secondo la procura eporediese, visse sei mesi di "gravi sofferenze" fino a togliersi la vita. Si impiccò nel bagno della cella utilizzando i pantaloni della tuta, un gesto che gli inquirenti definiscono come un "suicidio annunciato", risultato di una gestione negligente da parte del personale penitenziario. Nonostante i suoi precedenti tentativi di suicidio e le condizioni psicologiche evidenti, non ci fu tempo per sottoporlo a una perizia psichiatrica.

La pm Valentina Bossi, che ha coordinato le indagini, accusa otto persone, tra cui i vertici dell’epoca, di omicidio colposo. Gli imputati, secondo l’accusa, avrebbero ignorato segnali d’allarme chiari e inequivocabili. Alberto Valentini, 57 anni, direttore del carcere, difeso dagli avvocati Giuseppe Cormaio e Mario Angelo Conti, è accusato di aver omesso di adottare le misure necessarie per garantire la sicurezza del detenuto. Giorgio Siri, 67 anni, responsabile dell’area pedagogica, rappresentato da Mario Benni ed Enrico Scolari, è accusato di aver sottovalutato i campanelli d’allarme sul rischio suicidario. Maria Margherita Pezzetti, 53 anni, psicologa, assistita dalle avvocate Raffaella Enrietti e Francesca Peyron, è accusata di non aver monitorato adeguatamente le condizioni psichiche di Riccio. Paola Raitano, 48 anni, funzionaria giuridico-pedagogica, rappresentata dall’avvocata Rita Puglisi, è imputata per aver trascurato l’obbligo di vigilanza. Silvia Santià, 37 anni, psichiatra, difesa dall’avvocato Antonio Mencobello, avrebbe omesso di intervenire sul piano terapeutico. Elena Carraro, 50 anni, psichiatra, rappresentata dall’avvocata Cristina Rey, è accusata di negligenza nella gestione sanitaria. Cristina Biader Cepidor, 47 anni, psicologa, difesa dall’avvocato Danilo Cerrato, avrebbe ignorato le richieste di assistenza psicologica. Mauro Bergamini, 75 anni, psichiatra, assistito dall’avvocato Pietro D’Ettorre, è imputato per non aver predisposto un adeguato supporto psichiatrico.

Secondo quanto emerso dall’inchiesta della polizia penitenziaria, Riccio sarebbe stato abbandonato in un momento di grave fragilità. Nonostante fosse stato classificato inizialmente ad alto rischio di suicidio, la sua scheda fu declassata a medio rischio, e per due mesi non venne visitato da alcuno psicologo. Nei giorni in cui esplodevano rivolte nelle carceri di Torino e Ivrea, Riccio era stato lasciato a se stesso, senza le adeguate misure di sorveglianza e sostegno psicologico.

LA TRAGEDIA DI CARMAGNOLA

Vito Alexandro Riccio, 39 anni, era stato condannato per  aver ucciso il 20 gennaio del 2021 la moglie Teodora Casasanta e il figlio Ludovico di soli cinque anni nella propria casa.

Il medico legale aveva stabilito che Riccio si era scagliato prima sulla moglie con 15 coltellate alla schiena, infierendo poi, colpendola alla testa con uno svariato numero di oggetti di uso domestico: lampade, cornici, bottiglie, addirittura un televisore, qualunque cosa gli capitasse sotto mano. Poi contro Ludovico, trovato poco lontano dal lettino, con ancora indosso i jeans, ucciso con otto coltellate.

Il carcere di Ivrea

Lui rappresentante di commercio, originario di Nichelino, lei operatrice socio-sanitaria, nata in provincia di Pescara, si erano sposati nel 2014 e l’anno prima si erano trasferiti in via Barbaroux, a Carmagnola. Da qualche tempo, secondo i vicini, erano iniziati i primi litigi, ma i carabinieri non erano mai stati avvisati. Sembra che Teodora avesse deciso di separarsi e Alexandro non riuscisse ad accettare questa situazione.

Figlio di un poliziotto penitenziario in pensione, fino a quel giorno Vito aveva comunque condotto una vita apparentemente normale. Non aveva precedenti penali e nulla avrebbe lasciato presagire il tragico epilogo che avrebbe segnato la sua esistenza e quella della sua famiglia.

Pochi giorni prima di compiere il duplice omicidio Riccio aveva scritto un post su Facebook dicendo “Ho rovinato la mia famiglia. Mi farò curare”.

Per quel che se ne sa la moglie, di professione psicologa, aveva provato a parlargli ma la risposta che aveva avuto era stata la notte di furia omicida costata la vita a lei e a suo figlio. I funerali dei due si erano tenuti a Roccacasale (L’Aquila), paese di origine della donna. 

Sul biglietto poi trovato dai carabinieri c’era scritto “Vi porto via con me”.

Subito dopo il duplice omicidio, l’uomo aveva tentato di suicidarsi ingerendo candeggina e lanciandosi dal secondo piano dell’edificio, ma era sopravvissuto. Fu successivamente arrestato e incarcerato nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, per poi essere trasferito a Ivrea .

 A TORINO UN ALTRO SUICIDIO IN CARCERE

Un episodio simile si era verificato il 10 novembre 2019 nel carcere delle Vallette di Torino, dove Roberto Del Gaudio, un altro detenuto fragile e sotto osservazione psichiatrica, si impiccò utilizzando i pantaloni del pigiama. La corte d’appello di Torino ha recentemente confermato le condanne per i tre agenti penitenziari imputati, sottolineando nelle motivazioni che ci fu una "negligente carenza di osservazione, assai prolungata".

Del Gaudio, considerato ad altissimo rischio suicidario, aveva già tentato di farsi del male la sera precedente. La notte del suicidio, nessuno degli agenti passò a controllare la cella. Le immagini delle videocamere mostrano il detenuto prepararsi per l’impiccagione già dalle 21, armeggiando sul letto e rimuovendo i pantaloni del pigiama. Alle 22.25, Del Gaudio si alzò dal letto, andò alla finestra e, dopo 12 minuti, riuscì a togliersi la vita. Il suo corpo fu trovato solo alle 22.42. Gli agenti sostennero che il monitor di videosorveglianza fosse rotto, ma per i giudici si trattava di una tesi infondata: il monitor non funzionava da tempo, e l’obbligo di vigilanza, in quelle condizioni, avrebbe dovuto essere ancora più stringente.

La corte d'Appello di Torino ha condannato gli imputati e il Ministero della Giustizia come responsabile civile a risarcire i familiari della vittima. “È una sentenza molto ben scritta – ha commentato l’avvocato di parte civile Riccardo Magarelli – che afferma capisaldi in fatto e in diritto, inchiodando gli imputati alle loro responsabilità”.

Due casi diversi, ma uniti da un elemento comune: la grave insufficienza del sistema carcerario nel tutelare le vite più fragili.

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