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In tribunale

Carcere di Ivrea: abusi, silenzi e accuse. Una lunga scia di violenze e omertà. Quattro agenti escono dal processo

E si ricomincia, da lì, dalla cella “Acquario” situata al piano terreno, vicino all’infermeria.

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Carcere di Ivrea e presunti pestaggi del 2015 e 2016.  Colpo di scena, ad uno dei processi per le presunte botte nel carcere a Ivrea, tra il 2015 e il 2016, dopo anni di indagini e più di un’udienza preliminare, escono dal processo in quattro. Sono gli agenti di polizia penitenziaria: Francesco Callerame, Massimo Calvano, Massimilano Cannavò e Salvatore Fantasia. 

“Ci siamo sbagliati”: queste le parole pronunciate in aula dal procuratore generale Giancarlo Avenati Bassi, che insieme alla PM Sabrina Noce ha ammesso l’errore. La frase contestata, motivo principale delle accuse, semplicemente non esiste. Di fronte a tale ammissione, il giudice Edoardo Scanavino non ha potuto che concludere con una sentenza di assoluzione perchè “il fatto non sussiste”.

Gli avvocati difensori – tra cui Celere Spaziante, Alessandro Radicchi, Antonio Mencobello ed Enrico Scolari – hanno accolto con soddisfazione la sentenza. “Esprimo enorme soddisfazione per il risultato conseguito”, ha dichiarato l’avvocato Spaziante, ricordando come la richiesta di archiviazione fosse stata avanzata già all’udienza preliminare. “Non era necessario prolungare l’afflizione di questi imputati, già provati da dieci anni di processo”.

Il processo, però, non si ferma qui. La procura di Torino ha annunciato l’intenzione di ridefinire il perimetro delle accuse, lasciando aperte altre posizioni e proseguendo con le imputazioni nei confronti di alcuni colleghi degli agenti assolti. 

L’udienza è proseguita con le deposizioni dell’ex garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, del garante Regionale Bruno Mellano e di quelli comunali (ormai ex) Armando Michelizza e Paola Perinetto. Nella sua deposizione Mauro Palma ha ricordato come i registri di servizio del carcere fossero stati tenuti malissimo. Poi Palma ha anche relazionato al giudice in merito ad un'ispezione del novembre 2016 fotografando lo stato della cella liscia, dell’infermeria e della cella per l’isolamento.

Dell’inchiesta  se ne occupa la Procura generale di Torino che aveva accolto, nel febbraio del 2020, il ricorso, presentato dall’associazione Antigone e dal garante dei detenuti eporediese Paola Perinetto, tramite l’avvocato Maria Luisa Rossetti. 

A gennaio, la GUP Marianna Tiseo aveva rinviato a giudizio una ventina di persone, derubricando il reato di tortura in lesioni personali sulla base di una sentenza della Corte di Cassazione

La giudice aveva anche giudicato prescritti tre capi di imputazione, di cui uno riguardante il medico che sorseggiava il caffè mentre alcune guardie (così era scritto nel capo d'imputazione) riempivano di calci e pugni un detenuto (correva il 7 novembre 2015).

I giudici della Corte di Cassazione, infatti, in una sentenza di qualche giorno prima, oltre ad escludere la sussistenza del reato di Tortura avevano sottolineato che 7 degli 8 agenti di polizia, l’ispettore Alessandro Bortone e gli agenti Paride Petruccetti, Giovanni Atzori, Vincenzo D’Agostino, Riccardo Benedetto, Felice Cambria, Rocco De Maio e Lorenzo La Malfa, non dovevano essere sospesi dal servizio. L’ispettore Alessandro Bortone non aveva presentato ricorso.

“La condotta assunta dagli agenti, nei termini in cui è stata accertata, alla luce della necessaria contestualizzazione dell’atto, non potrebbe essere qualificata in termini di trattamento inumano o degradante, in quanto finalizzata al necessario e doveroso contenimento del detenuto” scrivevano.

Per i giudici di Cassazione erano anche da considerarsi incoerenti tra loro le versioni dei detenuti e dei medici.

“Parte di queste condotte (essere spogliato nudo, perquisito e costretto a fare flessioni sulle gambe), appaiono finalizzate a eseguire una perquisizione particolarmente accurata al momento dell’ingresso in istituto” si leggeva nel provvedimento della Corte 

A ricorrere in Cassazione era stata la Procura di Ivrea dopo che il Riesame, presieduto dalla giudice Loretta Bianco, nella primavera del 2023, aveva escluso il reato di tortura ipotizzato dalla pm Valentina Bossi  e annullato la misura cautelare della “sospensione” applicata nel dicembre del 2022 dalla Gip del tribunale di Ivrea Ombretta Vanini.

Nel caso denunciato da Oulaid Ainine, il Riesame, trattandosi di un unico episodio, aveva sottolineato che «anche laddove il racconto di Ainine venisse ritenuto attendibile non sarebbe ravvisabile il reato di tortura, ma semmai quello di lesioni aggravato. Per quanto concerne il reato di tortura, la norma distingue se si sia in presenza di più condotte o di un’unica condotta che abbia comportato un trattamento inumano e degradante». 

Nell’ordinanza il Riesame non negava che nella casa circondariale ci fossero stati episodi violenti. Ma evidenziava l’assenza di riscontri specifici. 

Uno degli agenti, Giovanni Atzori, era anche riuscito a dimostrare che il 24 luglio del 2022, ovvero il giorno successivo il tentato suicidio e alle violenze subite dal detenuto Vincenzo Calcagnile era in congedo. 

Di Calcagnile, invece, i giudici scrivevano ancora: «si evince dalla cartella sanitaria tenuta dalla struttura carceraria che è soggetto bipolare».

Il Riesame, in ogni caso, non smontava completamente l’impianto dell’indagine della Procura di Ivrea. Tutt’altro! 

Tra le altre cose precisava come fosse stato proprio l’ex comandante Michele Pitti  ad aver riferito «che all’interno del carcere vi era una sorta di “modus operandi” posto in essere da colleghi “anziani” per cui taluni venivano malmenati o percossi dagli agenti della polizia penitenziaria e denunciati per fatti commessi ai loro danni».

Stando alle dichiarazioni di Pitti sarebbe esistito un vero e proprio metodo della “contromossa” attraverso cui “taluni detenuti malmenati o percossi variamente dai colleghi venivano denunciati per fatti commessi in danno del personale e nessun credito veniva dato alle loro denunce”.

S’aggiunge la reticenza dei medici del penitenziario: «Non riferiscono mai - aveva sottolineato Pitti - sulle modalità con cui possono essere state prodotte certe lesioni ai detenuti e addirittura in alcuni casi non si trovano i referti e cartelle. Certo erano anomali i plurimi infortuni accidentali...”.

Nessuna accusa di tortura, ma solamente perché come ci spiegò il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, “il reato non era ancora presente nel codice penale al momento della presentazione degli esposti e dell’apertura delle indagini”. 

E si ricomincia, da lì, dalla cella “Acquario” situata al piano terreno, vicino all’infermeria.

E sono storie di pestaggi, all’interno di una stanza con pareti lisce, una sorta di sala d’attesa senza panca, senza riscaldamento e con le finestre oscurate. I detenuti vennero accompagnati qui, in quelle giornate di fine ottobre, per sedare una protesta. Ne parlavano tutti. Non se l’erano sognata. Lo scriverà subito dopo e a chiare lettere anche il  Garante Nazionale: l’acquario c’era.

L’indagine si era chiusa con una ventina di indagati a vario titolo: Francesco Callerame, 35 anni, Salvatore Fantasia, di 34, Giovanni Simpatico, di 41, Ciro Casillo, di 31, Giuseppe La Porta, di 39, Marco Fiorino, di 50, Francesco Ventafridda, di 53, Domenico Sorrenti, di 33, Pietro Semeraro, di 33, Giuseppe Picerno, di 40, Giuseppe Pennucci, di 51, Alessandro Armenio , di 34, Massimiliano Cannavò, di 51, Alessandro Landriscina, di 48, Paride Petruccetti, di 51, Massimo Genovesi, di 51, (tutti difesi dall’avvocato Celere Spaziante), Felice Cambria, di 41, (avvocato Mario Benni), Massimo Calvano, di 39 (avvocato Angelo Lavorato), Giovanni Muscolino, di 51 (avvocato Marco Ritella), Salvatore Avino, di 38 (avvocato Alessandro Radicchi), Mickael Palumbo, di 38, Fabio Pasqualone, di 38 (avvocato Mauro Pianasso) Mario Fortunato, di 38 (avvocato Patrizia Mussano), Giuseppe Carabotta, di 49 (avvocato Antonio Mencobello), Franco Rao, Rocco Firenze (avvocato Enrico Scolari), Emanuele Granato, di 36, e Giovanni Birolo, di 54.

All’interno di fascicoli, alcune confidenze dei detenuti messe nero su bianco.  E sono, pugni, calci, manganellate e verbali falsificati affinché quelle profonde ferite diventassero frutto di “scivolamenti su pavimenti bagnati” o atti di autolesionismo. E non mancavano le umiliazioni, come quelle di tenere i detenuti nudi per ore e ore. 

Nelle carte si racconta di quel medico che era di turno e sorseggiava beatamente il caffè, nei pressi del distributore automatico, mentre gli agenti della polizia penitenziaria picchiavano un detenuto senza troppi patemi d’animo. 

La vicenda  risale al 7 luglio 2015.  Quel giorno scrivono i magistrati «anziché impedire l’evento, come sarebbe stato suo obbligo, quanto meno chiamando immediatamente il comandante della polizia penitenziaria, continuava a sorseggiare il caffè, presso il distributore automatico». 

Gli agenti e il medico sono accusati di lesioni aggravate in concorso tra loro. L’agente è anche accusato di falso ideologico avendo scritto in una relazione indirizzata al Direttore che «il detenuto Ali Hamed, il 7 novembre 2015, dopo aver dato in escandescenza nella sua cella, la numero 9 al primo piano, era stato condotto al piano terra in infermeria, attraverso le scale di servizio e non era transitato nel locale davanti agli ascensori e che lo stesso aveva urlato più volte testuali parole: “basta, basta non ce la faccio più” riferito alla sua permanenza in carcere, alle difficoltà di non aver alcun rapporto con i familiari e di non avere alcuna disponibilità economica per acquisti di tabacco e generi di necessità».

Altra scena da horror  il 25 ottobre del 2016 con un detenuto portato nell’infermeria, denudato e preso  a pugni e manganellate dagli agenti. Nella relazione gli agenti scriveranno che aveva “sbattuto la faccia scivolando accidentalmente  sul pavimento reso scivoloso dall’acqua utilizzata per spegnere i focolai in precedenza appiccati in sezione...”. 

Ancora pugni, schiaffi e manganellate sulla bocca, sul costato e sul viso, il 26 ottobre del 2016. Nella relazione si leggerà: “scivolato accidentalmente”.

Stesso film, nella stessa giornata, con un altro detenuto portato in infermeria, fatto spogliare e percosso. In questo caso nella relazione si scriverà che avrebbe iniziato a sbattere la testa violentemente contro il vetro urlando ad alta voce “...e poi dirò che siete stati voi a picchiarmi, così vi rovino, pezzi di merda...”.

Risale invece al 22 maggio del 2016 il pestaggio di Rabi Raji, al 10 giugno dello stesso anno quello di Gerardo Di Lernia e, infine al 18 maggio del 2021, di Mouhssin Hamriti.

Un certificato medico parlerà di “estese ferite al volto, a naso, al costato” e in una relazione degli agenti, per i magistrati falsa, si afferma che il detenuto aveva perso l’equilibrio sul pavimento “reso scivoloso dall’acqua utilizzata per spegnere i focolai accesi da alcuni detenuti in sezione e sbatteva la faccia contro una cella”. Dopo le botte il detenuto venne lasciato nudo, per tutta la notte. 

Stesso copione per un altro detenuto lasciato per un’intera notte in infermeria nudo, non prima delle “botte”. 

Anche in questo caso dito puntato su una falsa relazione in cui si fa riferimento ad una caduta. 

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Di un altro detenuto si dice che mentre si trovava nella saletta di attesa dell’infermeria avrebbe cominciato a sbattere violentemente la testa contro un vetro pronunciando testuali parole: “Ora mi faccio male cosi vi rovino pezzi di merda”.

Bene ricordare che questa inchiesta era stata avviata e poi archiviata dalla procura eporediese. Poi avocata da Torino nel febbraio del 2020, su richiesta dell’allora garante dei detenuti Paola Perinetto e dall’avvocato Maria Luisa Rossetti.

“Contrariamente a quanto si sosteneva in una richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Ivrea – scriverà Francesco Saluzzoè presente documentazione medica in ordine alle lesioni riportate da un detenuto giunto in infermeria per essere medicato per escoriazioni e sanguinamento nasale e che presentava numerose escoriazioni su gambe, braccia e polsi (manette) e che ha riferito di essere stato immobilizzato a trasportato di peso da alcuni agenti di polizia penitenziaria. Nessuna indagine è stata svolta per circostanziare i fatti e i maltrattamenti con riguardo”.

Già nell’estate del 2019 la Procura di Torino si era lamentata che sui pestaggi del 2015 e 2016  “le uniche indagini svolte dalla Procura di Ivrea si erano concretizzate nell’acquisizione, presso la Casa circondariale di Ivrea, del registro delle sanzioni disciplinari, da cui risultava che il detenuto era stato sottoposto a isolamento, in esecuzione di quanto deliberato dalla direzione della casa circondariale di Vercelli, dunque, in mancanza di qualsiasi indagine volta a fissare il quando del pestaggio asseritamente patito dal detenuto…”.

Il dito era puntato sul Procuratore capo di Ivrea Giuseppe Ferrando che  “per lo svolgimento delle indagini si era avvalso della Polizia penitenziaria del carcere di Ivrea, alla quale appartengono gli indagati e le persone che, in virtù degli esiti di tali indagini, avrebbero potuto essere indagate”.

Come base di partenza la relazione ufficiale del Garante nazionale Emilia Rossi.

Dopo una visita a Ivrea confermò il racconto delle vittime: “Gli agenti fecero ingresso nella stanza di uno di loro lanciando il getto dell’idrante sul pavimento interno e lo presero violentemente a schiaffi e pugni sul viso e sulla testa e, quando era scivolato a terra, a colpi di manganello sul costato”.

Lo stesso racconto è riportato anche dall’associazione Antigone e sulla pagina web infout.org, sulla quale altri detenuti scrissero: “Noi qui stiamo testimoniando tutto quello che è accaduto, poteva esserci un altro caso Cucchi, addirittura più accentuato e che avrebbe coinvolto altre persone”.

Ed è riguardando il film “Le ali della libertà”, alla disperata ricerca di un senso a tutto questo, alla morte o ad una cella, che queste inchieste, di colpo assumono un significato davvero più profondo. Perchè... “la prima notte è la più dura. E quando senti sbattere il cancello, capisci che è vero: l’intera vita spazzata via in quell’istante. Non ti resta più niente […]. Solo una serie interminabile di giorni per pensare….”. 

Agli atti anche una lettera, con nomi e cognomi, inviata nel 2015 dal detenuto Matteo Palo di Chivasso ai Radicali e pubblicata sul sito infoaut.org.  

Ultima fermata di un calvario cominciato con una protesta organizzata per richiedere un televisore in cella. E’ il racconto di chi si era ritrovato ostaggio di 3 o 4 agenti. E’ la disperazione che sale di notte, quando la direttrice non c’era.

“Poi toccò a me. Di colpo aprirono il blindo e con un getto di acqua gelata di idrante mi stordirono e entrarono in tre o quattro velocemente in cella, mi buttarono per terra ammanettandomi e mi diedero nei costati dei colpi di manganello, poi mi tirarono su e nel tragitto verso l’infermeria, nei corridoi e per quattro piani di scale, presi schiaffi e manate in testa, finché non venni lasciato, credo qualche ora, chiuso senza vestiti, nell’Acquario al piano terra”. 

Si dirà: “Tutto falso..”. “E’ solo scivolato, caduto!”. Ma sul referto, il medico che quella sera lo visitò, scriverà che la caduta da lui descritta “non era compatibile con le lesioni  riscontrate…”.

L'altra inchiesta

E si ricomincia dall’inchiesta avviata dalla procura di Ivrea e scattata con le perquisizioni domiciliari eseguite nella notte tra lunedì 21 e martedì 22 dicembre 2022. 

Negli atti la storia di Oulaid Ainine è quella di un detenuto, originario del Marocco convocato in un ufficio per una comunicazione: il trasferimento in un altro istituto.

Portato in una stanza da quattro poliziotti sarebbe stato massacrato di calci e pugni mentre, riverso a terra, si rannicchiava in posizione fetale per difendersi. 

“Riceveva un colpo fortissimo alla spalla. Lo colpivano al ginocchio e ancora calci pugni e manganellate a cui lui non opponeva resistenza... L’assistente capo lo strangolava alla gola dicendogli: Tu sei un boss?  Ah ah ah abbiamo un boss”.

Insomma non ci sono come nello scandalo di Santa Maria Capua Vetere del 2020 le immagini registrate dalle telecamere, perchè a Ivrea, manco a dirlo, non hanno mai funzionato. Ci sono però i racconti e sono tanti..

C’è un braccio rotto dalle botte poi catalogato come un semplice infortunio sul lavoro conseguenza di una sfida a “braccio di ferro” tra un detenuto e un agente di polizia penitenziaria soprannominato “Insigne” come il calciatore, non prima di una provocazione: “Come sei muscoloso... Ti sfido. Che cazzo vai a fare in palestra che non sei buono a nulla?”. 

E’ il 18 gennaio 2021. Ad avere la peggio è Giovanni Fortunato (Fortunato solo di nome), 32 anni, origini campane, in galera per scontare un cumulo di pene per reati che vanno dalla truffa alla rapina.  Sette giorni dopo Fortunato, finito in ospedale, dichiarerà di essere scivolato. 

“Mi sono ritrovato bloccato al muro, ho capito che ero in pericolo, ho tirato fuori tutta la forza che avevo - scriveva in un diario l’ex detenuto - Non riuscivo a muovermi. Ho sentito il mio braccio spazzato via, come quando tira il vento e le foglie volano via ...”.

“Gli agenti lo avevano convinto a dire che si trattava di un banale infortunio sul lavoro con la promessa di ricevere indennità e altri privilegi” raccontava l’avvocato Gianluca Orlando. 

E dopo? 

Poi accade che un medico dello Spresal in visita al carcere per ricostruire la dinamica dell’infortunio scopre che quelle fratture non erano compatibili con una caduta, bensì frutto di botte. 

Oggi Giovanni Fortunato, dopo un breve periodo di detenzione in un’altra casa circondariale, sta scontando ciò che gli resta della pena in regime di detenzione domiciliare da parenti, fuori regione. 

“Ma non riacquisterà più l’uso completo del braccio destro a causa di quelle fratture multiple” conclude il legale.

“A settembre le mie cure, erano state interrotte - continuava Fortunato - ho iniziato a innervosirmi e ho provato a ribellarmi ma quando dico all’agente “Insigne”  che me l’avrebbe pagata, arriva la prima minaccia. Mi dice: fai il bravo che fai la fine del detenuto di Milano, che l’hanno fatto trovare impiccato. Divento un pezzo di ghiaccio: non chiudo occhio tutta la notte. Un giorno dovevo prendere una busta di caffè dal magazzino. “Insigne” chiude la porta e mi dice: Fai il bravo che ho l’indirizzo di tutti i tuoi familiari...”.

E non finisce qui.

C’è la lettera della mamma di Vincenzo Calcagnile, che in pochi giorni dimagrisce di 18 chili, tenta il suicidio, viene trasferito a Lecce e, interrogato sulle sue condizioni fisiche, dirà che avrebbe parlato solo davanti ad un magistrato. 

E parlerà - eccome se parlerà - raccontando anche di quei tranquillanti in dosi massicce che un giorno gli fecero inghiottire

«Poco dopo essere entrato in carcere avevo tentato il suicidio legando un lenzuolo prima alle sbarre e poi al collo. I primi agenti accorsi mi dissero: “Questo infame non si sa fare la galera”. Mi portarono allora in una stanza tutta a vetri in cui non c’era né un letto né un materasso. Quel giorno entrarono 12 agenti, dieci di loro indossavano i guanti neri, uno per uno. Sono rimasto completamente nudo. Mi colpivano anche con calci e pugni e con un manganello ai testicoli dove ero stato operato in passato. Quando ho chiesto di essere portato in infermeria un assistente con accento romano mi ha detto: “Se parli col comandante o con il medico ti ammazzo...”.

Sarebbe seguita una “spedizione punitiva” organizzata da agenti poi riconosciuti grazie ai soprannomi: Harley Davidson, Sansone, Schumacher e Tre tacche grigie. 

«Nella cella liscia – proseguiva la Gip – ove vi era un solo letto piantato a terra e un materasso di spugna lurido, venendogli consentito di indossare le sole mutande, ed ivi rimanendo per venti giorni, senza mai potere parlare con un avvocato, senza abiti, senza lenzuola, senza sapone, senza contatti con altri detenuti e senza mai usufruire di un’ora d’aria, e ciò nonostante non vi fosse alcun provvedimento di isolamento». 

“Mi hanno buttato in quello stanzone come un sacco di patate. Non potevo parlare col mio avvocato, non mi era consentito comunicare con gli altri detenuti, mi era negata l’ora d’aria”. 

E poi ancora...

“Mi somministravano un ansiolitico contro la mia volontà. A seconda di quanto insistevo nel chiedere di parlare col mio avvocato mi costringevano a bere dalle 30 alle 50 gocce. Mi hanno ridotto come un morto vivente, ho paura della mia ombra, ho il terrore anche di sognare. L’unico mezzo per comunicare con l’esterno erano i telegrammi ma mi dicevano sempre: “Hai rotto il cazzo, ora basta”.

Una notte arrivò anche una crisi di panico: «Venne un assistente siciliano e mi disse: “Non rompere la minchia e dormi”». 

Il giudice descrive il trattamento riservato al detenuto come «connotato da inaudita disumanità che ha causato una altrettanto inaudita lesione della sua dignità di persona».  

Un unico filo unisce tutti i racconti: quegli agenti della polizia penitenziaria, quei medici in servizio, quei funzionari giuridico pedagogici e quei direttori pro-tempore che “nascondono”, “insabbiano”, “mortificano”. Sono loro che nei documenti non avrebbero scritto tutta la verità, s’intende tutta quella che si sarebbe dovuta scrivere.

I casi ricostruiti dalla Procura di Ivrea sono 15, uno più crudele dell’altro. Alcuni risalgono all’ultima settimana di luglio e alla prima di agosto del 2022, pochi mesi fa.

Tra gli agenti ce n’è uno che si crede Dio e tanti altri che sfogano sui detenuti le proprie frustrazioni e depravazioni...

A leggere le carte vien da mettersi a piangere...

“Vada su quel tappetino e si spogli completamente, mi disse uno dei tre agenti presenti nella stanza e prima di ricevere il corredo, ad ogni indumento che mi levavo, la mia dignità si assottigliava di pari passo...” 

“Si abbassi anche le mutande e faccia tre flessioni piegandosi sulle ginocchia”. E poi «spogliato di quell’ultimo lembo di dignità che mi era rimasta, obbedendo all’ordine, iniziai a fare le tre flessioni sotto lo sguardo degli agenti».

C’è chi dice che è così che si fa, che sia tutto normale. Certo! Ma c’è modo e modo...

Un po’ qua e un po’ la “pacchi” spediti dai famigliari che non arrivano mai e sequestri di materiale informatico, soprattutto Personal computer.

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