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In carcere

Otto indagati per il suicidio di Vito. Era stato "abbandonato"

Figlio di un poliziotto penitenziario in pensione, Vito conduceva una vita apparentemente normale

Vito Alexandro Riccio

Vito Alexandro Riccio

La Procura di Ivrea ha chiuso le indagini preliminari riguardanti otto indagati accusati di omicidio colposo per la morte di Vito Alexandro Riccio, avvenuta il 26 settembre 2021 nel carcere di Ivrea. Si era tolto la vita con i pantaloni della tuta legati a una inferriata della cella mentre il compagno dormiva

Vito Alexandro Riccio, 39 anni, era stato condannato per  aver ucciso il 20 gennaio del 2021 la moglie Teodora Casasanta e il figlio Ludovico di soli cinque anni nella propria casa.

Il medico legale aveva stabilito che Riccio si era scagliato prima sulla moglie con 15 coltellate alla schiena, infierendo poi, colpendola alla testa con uno svariato numero di oggetti di uso domestico: lampade, cornici, bottiglie, addirittura un televisore, qualunque cosa gli capitasse sotto mano. Poi contro Ludovico, trovato poco lontano dal lettino, con ancora indosso i jeans, ucciso con otto coltellate.

Lui rappresentante di commercio, originario di Nichelino, lei operatrice socio-sanitaria, nata in provincia di Pescara, si erano sposati nel 2014 e l’anno prima si erano trasferiti in via Barbaroux, a Carmagnola. Da qualche tempo, secondo i vicini, erano iniziati i primi litigi, ma i carabinieri non erano mai stati avvisati. Sembra che Teodora avesse deciso di separarsi e Alexandro non riuscisse ad accettare questa situazione.

Figlio di un poliziotto penitenziario in pensione, fino a quel giorno Vito aveva comunque condotto una vita apparentemente normale. Non aveva precedenti penali e nulla avrebbe lasciato presagire il tragico epilogo che avrebbe segnato la sua esistenza e quella della sua famiglia.

Pochi giorni prima di compiere il duplice omicidio Riccio aveva scritto un post su Facebook dicendo “Ho rovinato la mia famiglia. Mi farò curare”.

Per quel che se ne sa la moglie, di professione psicologa, aveva provato a parlargli ma la risposta che aveva avuto era stata la notte di furia omicida costata la vita a lei e a suo figlio. I funerali dei due si erano tenuti a Roccacasale (L’Aquila), paese di origine della donna. 

Su un biglietto poi trovato dai carabinieri c’era scritto “Vi porto via con me”.

Subito dopo il duplice omicidio, l’uomo aveva tentato di suicidarsi ingerendo candeggina e lanciandosi dal secondo piano dell’edificio, ma era sopravvissuto. Fu successivamente arrestato e incarcerato nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, per poi essere trasferito a Ivrea .

Vito con la moglie il giorno del matrimonio

Vito con la moglie il giorno del matrimonio

Il figlio di Vito

Il figlio di Vito

Gli indagati, a vario titolo, sono: Alberto Valentini, 57 anni, in qualità di ex direttore del carcere; Giorgio Siri, 67enne di Montanaro, in qualità di responsabile dell’area pedagodica, Maria Margherita Pezzetti, 53 anni di Bairo, psicologa, Paola Raitano, 48 anni, funzionaria giuridico-pedagogica, Silvia Santià, 37 anni, psichiatra, Elena Carraro, 50 anni, psichiatra, Cristina Biader Cepidor, 47 anni, psicologa e Mauro Bergamini, 75 anni, psichiatra. Seguiti dagli avvocati Antonio Mencobello, Danilo Cerrato, Piero Dettore e Raffaella Enrietti.

Secondo la Procura di Ivrea avrebbero ignorato i segnali di allarme relativi alla condizione psicologica di Riccio. Nonostante il suo precedente tentativo di suicidio e le sue richieste di assistenza, la “scheda del rischio suicidio” di Riccio venne declassata da alto a medio, e per due mesi gli fu negato qualsiasi colloquio con professionisti. 

Eppure, nelle cartelle cliniche c’è scritto: «Alterna lucidità a pensieri paranoici». «Propone pensieri deliranti e persecutori». «Situazione psicologica critica».

Lo psicologo, anche lui indagato, fece il primo colloquio a Riccio il 14 giugno e lui lo aveva chiesto il 19 aprile.

«Viene accompagnato in infermeria per umore deflesso. Piange», si legge nell’annotazione psichiatrica del 29 aprile.

I segnali erano già chiari il 13 maggio: «Il detenuto dichiara di non stare bene psicologicamente. Pensa alla sua vita di prima. Non si fa una ragione di essere finito così. Di cosa ha fatto».

Il giorno stesso Riccio chiede aiuto. Dice ai medici del carcere che ha bisogno di colloqui con lo psicologo.

«Si prosegua con la terapia in corso», è la risposta.

L’inchiesta, condotta dalla PM Valentina Bossi, sostiene che Riccio fu lasciato in uno stato di abbandono dalle autorità carcerarie, costretto a vivere sei mesi di “gravi sofferenze” senza il necessario supporto.

Riccio si impiccò nel bagno della sua cella usando i pantaloni della tuta .

Il caso di Alexandro Riccio accende i riflettori sui problemi del sistema penitenziario italiano, specialmente nella gestione dei detenuti con problemi psicologici

Sullo sfondo una serie di domande su come le istituzioni carcerarie possano migliorare il trattamento e la sorveglianza dei detenuti vulnerabili.

La chiusura delle indagini e il processo che seguirà contro gli otto indagati potrebbero, anzi dovrebbero, portare a significative riforme nel sistema penitenziario, mirate a evitare che simili tragedie si ripetano in futuro.

Nel corso del processo evidentemente si discuterà dell’importanza di una sorveglianza adeguata e di un supporto psicologico tempestivo per i detenuti, nonché della responsabilità degli operatori penitenziari nel garantire la sicurezza e il benessere delle persone a loro affidate .

La verità è che la morte di Alexandro Riccio in carcere rappresenta un fallimento del sistema nel proteggere una persona chiaramente a rischio, e solleva seri interrogativi sull’efficacia delle misure di prevenzione dei suicidi all’interno delle strutture penitenziarie italiane.

Le accuse mosse contro gli otto indagati sottolineano l’urgenza di un cambiamento sistemico per prevenire ulteriori tragedie e garantire un trattamento umano e adeguato a tutti i detenuti.

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