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06 Marzo 2018 - 11:06
Nel 2012 la ‘ndrangheta era rinata proprio come l’araba fenice
Quattro anni di indagini dei carabinieri del nucleo operativo di Chivasso e 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere, più una serie di sequestri, che tra immobili, conti correnti, auto potenti ed orologi sfiora i 3 milioni di euro. Questo il gran finale, nel giugno del 2017, di un lavoro organizzato per scoprire ed impedire il radicamento a Chivasso, Settimo e Leinì di tre nuove locali della ’ndrangheta.
I primi sospetti si hanno il 10 gennaio 2012, con 11 colpi di pistola calibro 9 esplosi contro le vetrate del ristorante Bella storia di Caluso. Si aggiugono tre tentativi di omicidio e un ferimento, tra giugno ed agosto, a Chivasso, a Verolengo e a Settimo Torinese.
In manette finiscono sia le vittime che i presunti aggressori: mandanti ed esecutori materiali, accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, rapina, incendio, danneggiamento, usura e detenzione clandestina di armi. Una guerra di potere per ridisegnare la geografia della ’ndrangheta in Canavese, dopo le operazioni dei carabinieri Minotauro e Colpo di coda che avevano sradicato le locali di Chivasso e di Volpiano, e le “bastarde” di Cuorgnè e di San Giusto, con oltre un centinaio di arresti.
Ai vertici del nuovo sodalizio criminale ci sarebbero Francesco Gioffrè, 34 anni ed Antonio Guerra, 38 anni, entrambi residenti a Chivasso. «Sarebbero stati loro - aveva spiegato il pubblico ministero Monica Abbatecola, che aveva coordinato le indagini- a impartire le direttive e le strategie della nuova holding del crimine, attraverso una forte impronta intimidatoria, tra armi e minacce per avere il controllo totale del territorio».
E sarebbero stati proprio loro due a sparare almeno tre colpi di pistola nel tentativo di ucciderlo, all’indirizzo di Salvatore di Maio (non raggiunto dall’ordinanza, ma arrestato nell’ottobre del 2012 per detenzione di armi nell’ambito di Colpo di coda) mentre era intento a smontare un ponteggio su un cantiere. Salvo per miracolo solo per essere riuscito a nascondersi dietro una siepe.
Non così bene era andata a Valentino Amantea, immobilizzato su una sedia a rotelle, dopo essere stato colpito da diversi colpi di pistola e subito messo agli arresti domiciliari per detenzione abusiva di armi. Nel mirino anche Giovanni Ponente (già coinvolto nel processo Minotauro per spaccio di droga) colpito all’addome da tre proiettili di calibro 22 mentre rientrava nel suo appartamento di Chivasso. Infine Carmine Volpe (arrestato per detenzione abusiva di armi) e ferito da un colpo di pistola alla coscia. Secondo il castello accusatorio elaborato dalla Procurata torinese le quattro vittime dovevano essere punite (soprattutto Valentino Amantea), per la loro volontà di autonomia rispetto alle direttive che arrivavano dai vertici dell’organizzazione criminale in diretto contatto con la ’ndrangheta calabrese.
Raggiunti dall’ordinanza anche Domenico Gioffrè, 31 anni, di Chivasso e il fratello Francesco. E poi Domenico, Francesco e Luciano Ilacqua (tutti residenti a Chivasso), Giovanni Mirai, 40 anni, Francesco Grosso, 39 anni, e Salvatore Calò, 47 anni. Il gip del Tribunale di Torino aveva accolto anche le richieste di sequestro preventivo di alcune ditte, oltre che di immobili che, allo Stato, non risultavano compatibili ai redditi dichiarati dalle persone coinvolte. Tra le ditte alcune carrozzerie, 6 autolavaggi riconducibili, anche attraverso intestazioni fittizie, agli arrestati.
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