AGGIORNAMENTI
Cerca
13 Novembre 2020 - 11:18
Tra i luoghi più significativi di Brandizzo, ce n’è uno in particolar modo caro ai brandizzesi di vecchia generazione; sorge nel centro urbano del paese e attorno ad esso oggi ruota la vita culturale della comunità.
Il centro polifunzionale di pubblici servizi “Sarpa” è stato intitolato a quella che fu la “Società Anonima Rappresentanze Pizzi e Affini”, una tra le prime attività manifatturiere insediatesi a Brandizzo alla fine del XIX secolo. L’attività assunse tale denominazione soltanto nel 1936, quando l’azienda venne acquisita da Henry Soubeyran (già rappresentante di pizzi per l’Italia degli stabilimenti “Lariviere” di Calais); in realtà la “fabbrica dei nastri”, più conosciuta come la “fabbrica dei bindeij”, venne fondata sin dal 1894 per opera di Avventino Barbero.
Un primo studio sulla fabbrica fu redatto in occasione del recupero del complesso nel 1995 (1). In tale ricostruzione storica si misero in luce, in modo particolare, gli aspetti relativi allo sviluppo dell’azienda.
L’attività fu inizialmente gestita dai figli del fondatore e in un secondo momento passò alla gestione dell’ingegnere tessile Francesco De Bernocchi (1912), successivamente venne rilevata dal già citato Soubeyran (in società con Michele Rotunno), sino ad arrivare nel 1946 alla vendita dell’azienda al commerciante veneziano Francesco Volpe.
In questo arco temporale, al nucleo originario della fabbrica, conservato nel recupero, si aggiunsero nuovi corpi di fabbrica e si installarono telai e macchinari sempre più moderni, a seconda del tipo di lavorazione (es. tombolo, valenciennes, ecc.), ma ciò che rimase invariata fu la quasi totale presenza femminile fra le maestranze impiegate nell’azienda.
Quando alla fine dell’800 si installarono i primi telai, vennero trasferite da Torino alcune lavoranti specializzate, alle quali si affiancarono le prime operaie brandizzesi; queste ultime non erano certo avvezze al tipo di lavoro, abituate com’erano al lavoro nei campi, tuttavia nel giro di poco tempo la fabbrica arrivò a contare circa trenta donne tra operaie e apprendiste.
L’azienda operò sino al 1974 e in essa passarono almeno tre generazioni di donne brandizzesi.
Ed è proprio su questo aspetto che ci soffermeremo, prestando voce alle “donne della Sarpa” che ancora oggi sono in grado di testimoniare numerosi momenti di un passato industrioso e, soprattutto, di come la loro vita si svolgesse “tutta in fabbrica”.
Agnese Pertengo
«Mi chiamo Agnese, ma per anni sono stata per tutti l’ “Agnesina della fabbrica”. Sono nata nel 1916. La mia famiglia è di Brandizzo, a parte qualcuno che arrivava dalle montagne. Per me è stato abbastanza naturale arrivare a lavorare in una fabbrica di Brandizzo, anche perché quando io ero giovane, qui il lavoro era molto: in un’azienda che produceva compensato c’erano 200 operai, 100 nella fabbrica di tele cerate… Ho studiato fino alla quinta elementare. Mi sono sposata in tempo di guerra, ma mio marito è partito subito per la Russia; non è più tornato. Era partito da Udine il 6 agosto 1942; l’ultima sua lettera è datata 8 gennaio 1943.
Avevo solo 14 anni quando ho iniziato a lavorare in fabbrica, alla Snia Viscosa. Nel 1933 sono arrivata alla Sarpa; mia madre lavorava a Brandizzo da 40 anni: è lei che mi ha fatto entrare. Mia madre era nata nel 1891; anche lei aveva cominciato a lavorare a 12 anni, e poi è stata lasciata a casa nel 1942. Io invece ci sono rimasta fino al 31 dicembre 1968.
Il mio primo giorno di lavoro l’ho trascorso nel reparto di finissaggio, dove si confezionavano pizzi e pezze di etichette per le spedizioni. Si trovava dove oggi c’è il negozio di abbigliamento (Fioremoda). Non mi ha fatto impressione, però era un lavoro delicato, in cui era molto importante avere una vista attenta e acuta. I lavori, in Sarpa, erano tanti, e si faceva tutto a mano. C’erano anche le macchine, naturalmente, ma il lavoro dell’operaio era determinante. Ad esempio, c’era chi leggeva i disegni da mettere poi sul cartone: si preparava a mano la matrice ed era un lavoro molto difficile; spesso si saliva sulla scala per cambiare un cartone e fare più in fretta, ma poteva essere pericoloso. Una volta, infatti, un ragazzo si è fatto male, perché la cinghia gli ha preso la camicia e gli ha strappato un po’ la pelle. All’inizio, un’operaia lavorava a un telaio; alla fine a tre telai. Al lavoro faceva caldo (tranne che in tempo di guerra, perché non si riscaldava). D’estate, poi, era insopportabile: Volpe passava alle 16 a portare il ghiaccio. Spesso andavo io in bicicletta a prenderlo. De Bernocchi distribuiva acqua e anice.
Nei turni si mangiava lì, c’era una stanza che faceva da refettorio. Si cantava, si parlava… Si cantavano le canzoni di moda a quei tempi: Bombolo, Marinaio, Napoletana… Eravamo tutte come sorelle, anche perché dalla fabbrica passavano tante ragazze giovani.
Io ho fatto un po’ di tutto: disegni, cucire…sono diventata aiutante in ufficio a copiare le fatture. Alla fine, sono tornata nel finissaggio a istruire i giovani, per confezionamento e spedizioni.
Il lavoro non era duro, ma occorrevano buoni occhi perché si lavorava un filo di seta molto sottile. Io non ho mai messo gli occhiali né fatto assenze per malattia. Ho sempre lavorato.
Durante la guerra, io non ho smesso di lavorare; eravamo giovani e senza paura… quando gli aerei si abbassavano per mitragliare, noi andavamo nel rifugio, che si trovava sotto l’attuale giardino. Quando c’erano i bombardamenti, c’era comunque l’allarme… non posso dimenticare il bombardamento di Chivasso, quando ci furono più di 100 morti… Però, poiché il lavoro era diminuito (ci fermavamo solo due giorni alla settimana), nel frattempo ho fatto altre cose: pettinatrice, cameriera (al ristorante che c’era davanti alla farmacia vecchia), sarta.
Ho assistito a tanti momenti della vita della fabbrica, ho conosciuto tanti padroni, e tutti mi hanno voluto bene; una volta i padroni erano contenti di essere padroni, non ricchi, e vivevano in fraternità con gli operai.
Quando sono arrivata, eravamo in 50, ma durante la guerra ci siamo ridotti a 12, perché c’era poco lavoro; l’Italia era tagliata in due e molto lavoro andava al Sud. Solo dopo la guerra è rifiorita, fino al ’72, quando l’hanno chiusa.
Eravamo quasi tutte donne, a parte poche eccezioni: due o tre tessitori, due meccanici e due aiutanti più giovani.
Il mio ricordo più nitido è il rumore. In fabbrica c’era sempre tanto rumore.
Noi parlavamo sempre della fabbrica. Eravamo praticamente obbligati a farlo, perché la vita è trascorsa tutta in fabbrica. Si lavorava anche 12 ore. Alla fine si è arrivati a fare i turni. Il mio orario andava dalle 7 alle 12 e dalle 14 alle 18. Non ci sono mai stati i sindacati. Sono arrivata a guadagnare 30.000 £ al mese.
C’erano le ferie: una settimana all’inizio, poi quindici giorni, poi tre settimane. La domenica non si lavorava. Nel periodo del sabato fascista restavamo a casa il pomeriggio. Durante la mattinata non c’erano pause e non ci si poteva allontanare dalla fabbrica.
Nel tempo libero, c’era il dopolavoro al di là della stazione, dove si poteva ballare; nel cortile c’erano la sala da ballo (con orchestrina o radio), il gioco delle bocce e della pallavolo.
Poi, con Volpe, facevamo anche delle belle gite: nel 1947 siamo andati a Venezia, nel 1948 a Lugano e l’anno successivo a Portofino. Si partiva sempre in pullman, in un weekend di giugno, e si dormiva in albergo. Forse si trattava di un premio. Comunque, le giovani partecipavano sempre tutte!
Ricordo sempre la fabbrica con tenerezza, e prego per le anime della fabbrica. Mi viene spesso anche un po’ di angoscia, però: con tutto quello che abbiamo fatto, potremmo esserne noi i padroni…»
Angiolina Gamarra
«Sono nata il 3 agosto 1928 a Volpiano, nella cascina Fourrat. La mia era una famiglia di mezzadri; siamo arrivati alla fabbrica perché mia madre faceva la portinaia.
Ai miei tempi si facevano le valenciennes nella fabbrica di Torino e il tombolo a Brandizzo; io ho fatto un po’ tutti i lavori. Sono stata in fabbrica fino alla chiusura, che è avvenuta nel 1974.
La fabbrica non era solo un luogo di lavoro per noi: era il luogo in cui stavamo insieme, una parte importante della nostra vita. Si chiacchierava di nascosto, ci prestavamo le scarpe. Eravamo sempre contente. Guadagnavamo 10 soldi all’ora, mentre il tombolo era a cottimo. Eravamo comunque pagate per 8 ore, mentre spesso ne lavoravano 10, domenica compresa! Le operaie si occupavano spesso di più di un telaio, ma non c’erano i sindacati a tutelarle. Si cominciava alle 7, e poi c’era una pausa per la colazione; al tempo di Volpe, io ho fatto anche i turni.
Il primo lavoro che si faceva era quello di portare le spole, ma nessuno te lo insegnava, perché tutte avevano paura che si rompessero i fili. Poi le orditrici mettevano i fili nei telai; durante l’inverno lavoravano vestite, ma anche in estate era obbligatorio portare le calze – altrimenti non c’era decoro – benché facesse un caldo terribile: infatti i vetri delle finestre dovevano restare sempre chiusi dove c’erano i telai, poiché la seta si rompeva facilmente. Dove adesso c’è la sala del consiglio comunale c’erano i telai, sopra le orditrici.
Quando aspettavo mio figlio, sono andata a lavorare fino al dicembre 1950; il 6 gennaio del 1951 è nato. Dopo 40 giorni sono tornata e andavo ad allattare nei magazzini, dove adesso c’è il negozio di Fiore moda. C’era un rapporto strettissimo tra la fabbrica e la nostra vita al di fuori di essa; chi abitava vicino correva a mettere la pentola sul fuoco, e poi tornava, per esempio.
Ci sono stati momenti duri: al tempo di De Bernocchi, Celeste Pertengo (morta a 96 anni) insegnava alle giovani e ricorreva a punizioni verso chi non imparava.
Alcuni erano assunti senza libretti. Quando arrivavano i controlli, si scappava grazie a una scala a pioli dalla parte degli orti. Anche durante la guerra dovevamo scappare, perché il rifugio era riservato ai proprietari.
De Bernocchi però pagava anche se stavamo a casa in malattia; Volpe no. Però ci portava in gita… Se lui fosse vissuto, magari avrebbe provveduto allo sviluppo dell’azienda, ma la signora Volpe non è stata in grado; me l’aveva detto che avrebbero chiuso la fabbrica perché i telai erano vecchi e ci sarebbe voluta una ristrutturazione, per la quale non c’erano risorse. Alla fine cedette tutto, e alcuni telai furono rilevati dalla ditta Rava.
Quando si seppe della chiusura, andammo alla Camera del Lavoro; partecipai anch’io, ma restai in auto ad aspettare. In ogni caso, non ci fu nulla da fare».
Amalia Bocca
«Sono nata nel 1938; sono entrata alla Sarpa tra il 1953 e il ’54 e ho fatto l’impiegata per 11 anni.
Mi occupavo di contabilità e corrispondenza e gestivo il lavoro di 2 o 3 segretarie, a seconda dei periodi. Le impiegate erano 7-8 in tutto, su un totale di 80 dipendenti.
Prima il mio ufficio era al pianterreno, poi fu spostato al primo piano; a fianco c’era il reparto con finissaggio e magazzino; io dovevo anche controllare che gli operai non parlassero, perciò fu messa una finestra dalla quale io potessi seguire il lavoro.
Anche mia mamma, Gina Facta Bocca, che era nata nel 1912, ha lavorato in fabbrica dai 12 ai 48 anni ed è diventata responsabile di due reparti. Mia madre ha conservato forbicine e attrezzi di lavoro.
Il lavoro era duro per chi doveva occuparsi di 2 o addirittura 3 telai.
Al tempo di Barbero l’impiegata factotum era Margherita Currone. Mia mamma mi parlava di diversi capi, fino a Flora Calovini – la vedova di Volpe – che era “tremenda”.
Ero in collegio a Lanzo e Volpe mi fece uscire per la gita a Montecarlo (Volpe non pagava, però organizzava le gite…).
Nel 1960 circa si fece una grande festa per il centenario (2); fu una grande serata con orchestra e ballerini, durante la quale si cantò la canzone inno della fabbrica» (3):
All’ombra della mole del ‘60
Nasceva una casetta original
Che al mondo oggidì onora e incanta,
con il classico prodotto suo special.
La Sarpa è quella casa conosciuta
Di pizzi e nastri a più color
Col marchio di una volpe fine e astuta
Dal nome dell’attuale produttor.
RIT. Bella etichetta sei tu perfetta,
dell’eleganza regina ti fa!
Che distinzione, che perfezione,
ogni campione valor ti dà!
Con il tuo tocco leggero dell’arpa
Sarpa! Sarpa! Sarpa! Sarpa!
Brandizzo è ormai un celebre villaggio
Poiché la casa qui si stabilì
E tutto il mondo viene a darle omaggio,
è un viavai di gente e di taxi.
Agnese, Angiolina e Amalia, sono soltanto tre delle decine di donne che operarono alla “Sarpa”; le loro testimonianze (4) non esauriscono certamente l’argomento, tuttavia se lette in ordine cronologico (in base alla data di nascita delle intervistate), così come sono state proposte, sono in grado di dare uno sguardo di ampio respiro su quella che fu la vita in fabbrica nell’arco di almeno quaranta anni.
Note:
1. Per approfondire l’argomento: C. ANSELMO, “La Sarpa. Da fabbrica a centro polifunzionale di pubblici servizi”, Verolengo 1995.
2. Probabilmente si tratta della festa tenutasi in occasione dell’inaugurazione del reparto pizzo “tombolo” avvenuta nel 1955.
3. La canzone venne scritta per l’occasione da Vittorio Germano (1916-1960). E’ stata nuovamente interpretata di recente dagli allievi brandizzesi, in occasione dell’evento di presentazione dei laboratori didattici dell’associazione culturale MEMO-Documenti visivi (a.s. 2008-2009).
4. Le testimonianze sono state raccolte negli ultimi anni da Antonella Calzavara e Caterina Romeo.
ARTICOLO TRATTO DALLA RIVISTA CANAVEIS
Antonella Calzavara e Marianna Sasanelli
Edicola digitale
I più letti
LA VOCE DEL CANAVESE
Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.