“Il bambino vive nel gioco un’esperienza rara nella vita dell’uomo, quella di confrontarsi da solo con la complessità del mondo” (Francesco Tonucci, La città dei bambini). Il parco Nilde Iotti, appena inaugurato, sembra avere colto, almeno in parte, le raccomandazioni di Francesco Tonucci, il grande pedagogista che da anni invita urbanisti e sindaci a ripensare le città modellandole sulle esigenze dei bambini. I bambini devono essere messi in condizioni di organizzare liberamente il loro gioco, costruendosi da soli le loro regole, e sperimentare liberamente il loro modo di essere e di stare nello spazio. Per fare questo non servono scivoli o altalene, attrezzature “monotematiche” create e pensate per essere usate in una sola maniera; forme d’uso che poi vengono sistematicamente disattese dai bambini stessi. Lo scivolo dopo un minuto, dopo la prima scivolata ordinaria, comincia diventare un oggetto diverso, luogo di arrampicate trasversali, percorso in senso inverso il più delle volte, oggetto di conquista. Il tutto con grande scoraggiamento dei genitori che si affannano a rincorrere i figli mentre rischiano l’osso del collo, il loro e quello degli altri bambini. Tonucci invita a costruire parchi che non prevedano attrezzature per il gioco: costruire una piccola collina, un muro basso, alcune rocce; oggetti fisici non specifici che possano lasciare il campo alla fantasia dei bambini stessi. Eccoli qui quindi, nel parco, questi spazi di gioco liberi. C’è ovviamente una zona più tradizionale, ma ci sono anche le colline, le rocce, i giochi con l’acqua dove è possibile e piacevole “trasgredire” e bagnarsi dalla testa ai piedi divertendosi e sfuggendo alle regole. Una piccola cosa ma importante. Un’attenzione difficile da trovare nella gestione delle città, troppo spesso imbrigliata dalle norme burocratiche e dalla paura della sperimentazione. È tempo quindi di insistere. Si è fatto un passo. Si continui. Costruiamo intorno al parco una rete di spazi urbani che consenta ai bambini di raggiungerlo in autonomia. Smettiamo di pensare alla città come una somma di recinti chiusi. La città deve diventare un luogo vivibile e utilizzabile, dai bambini, ma anche dagli anziani e da tutti i cittadini, senza ghetti. Occorre insistere e abbandonare la logica dei recinti. La logica che pretende di assegnare aree e spazi con una destinazione d’uso unica. Un recinto per i bambini, per quanto meraviglioso, è sempre un recinto, una riserva dorata che tuttavia non consente agli stessi bambini di sperimentare la città nella sua totalità, nella sua complessità; con la stessa logica costruiamo recinti, uno per gli anziani, uno spazio per il lavoro degli adulti, uno per lo sport, e così via. Compartimenti stagni che non comunicano tra loro. Invece lo stesso principio di apertura che Tonucci descrive sulle sue rocce sparse, deve essere recepito anche nella città, nel suo spazio pubblico. Abbiamo quindi la possibilità di farlo. Bisogna lavorare ancora molto. C’è la pedonale che arriva oggi solo fino all’inizio di via Torino, poi c’è il buco nero della ex Standa, che tuttavia potrebbe diventare una importante estensione all’isola pedonale; c’è piazza della Repubblica di fronte all’Archimede, oggi decisamente sottoutilizzata; abbiamo infine tutto il quadrante che ruota tra questi luoghi e il nuovo parco, fino al ponte pedonale sulla ferrovia, fatto di stradine residenziali e di assi di circolazione come via Mazzini. Occorre ripensare tuto il quartiere per renderlo vivibile, utilizzabile, in sicurezza, dai bambini. Fare quindi del parco non un episodio isolato, ma il centro di un sistema di vita pubblica aperta a tutti i cittadini, un luogo dove riconciliarsi con la complessità del mondo.
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