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22 Gennaio 2020 - 11:19
Quando inaugurarono la nuova facciata della chiesa parrocchiale di San Pietro in Vincoli, a Settimo Torinese, il 21 aprile 1900, nessuno immaginava che cosa sarebbe successo centoventi anni dopo, fra crolli e chiusure «sine die». Una storia triste, senza dubbio, che si auspica possa concludersi nel migliore dei modi, in tempi ragionevoli.
Correva l’anno 1900, dunque. A Settimo si completavano i lavori della facciata di San Pietro. Voluti dal teologo Domenico Gobetto, originario di Gassino, parroco dal 1889, erano il naturale completamento d’importanti opere edili realizzate all’interno dell’edificio sacro durante l’ultimo decennio dell’Ottocento. L’ideatore, il geometra Michele Triccò, segretario del Comune e presidente della Società Militare di Mutuo Soccorso, era ben noto in Settimo per alcuni progetti d’interesse pubblico: fra questi, la costruzione della scuola nella borgata Fornacino e la ristrutturazione dell’ex palazzo Bricca o Chiabò (all’imbocco dell’attuale via Roma), adattato a sede del municipio.
Il geometra Triccò si era assunto l’impegno di ultimare i lavori per il giubileo del 1900. Puntualmente, il 21 aprile di quell’anno, la chiesa poté essere consacrata da monsignor Luigi Spandre, vescovo ausiliare di Torino e coadiutore dell’arcivescovo Agostino Richelmy. Sopra l’ingresso principale, a ricordo dell’avvenimento, fu murata una lapide marmorea – oggi perduta – con una bella iscrizione latina. Il testo ci è noto attraverso la trascrizione del teologo Domenico Caccia la quale, però, contiene alcuni errori, forse refusi tipografici.
La facciata di Michele Triccò era in stile neoclassico, secondo il gusto dell’epoca. Nel complesso non presentava elementi di particolare rilevanza architettonica, tenuto conto delle ridotte disponibilità finanziarie: pur non essendo brutta, peccava di scarsa originalità e poteva passare per un’opera un tantino scolastica. A prevalere erano le linee orizzontali che schiacciavano la chiesa, privandola dello slancio verticale.
Divisa in tre campi corrispondenti alla tre principali navate, la facciata terminava con una classica trabeazione poggiante su quattro lesene dal capitello ionico, il tutto sovrastato da un frontone triangolare. All’interno del timpano campeggiavano le iniziali «D. O. M.» dell’iscrizione dedicatoria: «Deo Optimo Maximo» (a Dio, il più buono, il più grande). Due mezze lesene inquadravano l’ingresso centrale, reggendo un arco a tutto sesto nella cui lunetta figurava l’immagine del Redentore assiso sul trono. Poco sotto era posta la già menzionata lapide che ricordava la consacrazione del 1900.
I campi laterali della facciata apparivano orizzontalmente bipartiti da due cornici non molto pronunciate: nelle sezioni inferiori si aprivano le due porte secondarie, ognuna sormontata da un finestrone circolare, mentre le superiori accoglievano le statue dei santi Pietro e Paolo, una per parte, in apposite nicchie.
Di lì a brevissimo tempo, Triccò pose mano alla soprelevazione del campanile che sembrava poco slanciato rispetto alla ricostruita facciata. Al di sopra della nuova cella campanaria, situata a un livello ben maggiore della precedente, eresse un’alta cuspide quadrangolare, interamente in cemento armato al pari dei piani superiori e della balconata.
La facciata di Michele Triccò scomparirà nel 1953. Benché fosse trascorso solo mezzo secolo dalla sua realizzazione, l’opera versava in uno stato di forte degrado a causa degli agenti atmosferici. Le emissioni nocive delle fabbriche avevano pure deteriorato l’affresco del Redentore e le statue dei santi Pietro e Paolo. Dell’opera di Triccò, attualmente rimane il campanile, seppure privo della balconata.
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