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23 Ottobre 2018 - 16:40
Lo dicevo già un po’ di tempo fa che era il momento della pallavolo e le imprese delle nostre Azzurre ai mondiali in Giappone sono state il suggello definitivo ad un’attenzione che ora tornerà in letargo fino a data da destinarsi. Il fatto poi che fosse una Nazionale, diciamo così, “multietnica” ha naturalmente destato anche l’interesse di chi ci teneva a far notare che due delle nostre ragazze più forti sono di colore. Farlo notare anche a chi, di quel dettaglio irrilevante, non gliene poteva fregare di meno. Ma il punto non è questo. Com’è noto, è andata male. Quel drammatico quinto set, capace di far assaporare la gloria e poi di far precipitare nello sconforto più nero, resterà impresso a lungo negli occhi di chi ama lo sport. E ora veniamo al punto. Il giorno dopo la finale, sulla televisione di Stato è comparso, ad intervalli regolari, uno spot con immagini delle nostre giocatrici su cui campeggiava la scritta: “Grazie ragazze”. Un bel gesto. Dovuto. Ecco, la domanda è: perché la Nazionale di calcio non riesce a suscitare la stessa, unanime, simpatia? Quando giocano gli Azzurri del calcio, c’è sempre qualcosa che non va, qualcuno che ha qualcosa da obiettare. Molti, addirittura, sono contenti se la Nazionale perde. Paola Egonu, la miglior attaccante del mondiale, gioca per la squadra di Novara, ma per lei hanno fatto il tifo i sostenitori di tutte le squadre d’Italia. Invece, quando giochi nella Nazionale di calcio resti innanzitutto il giocatore di un club e i tifosi delle altre squadre difficilmente te lo perdonano, a meno che non vinci un mondiale e allora sono tutti contenti perché, finalmente, sì può girare di notte con i clacson a palla, mezzi ubriachi, e fare il bagno nelle fontane pubbliche. Perché il calcio divide in modo così profondo, fino a generare episodi di violenza che negli altri sport non vedi mai? Sì, certo, la passione aggrega, tra l’altro calamitando tifosi di tutti i ceti sociali, e la visibilità del fenomeno calcio, chiaramente, attira i facinorosi, offrendo loro, ed alle loro imprese, una cassa di risonanza incredibile. Questo è evidente, ma credo che molto faccia anche l’atteggiamento dei media pronti a gettare veleno su ogni partita, a coltivare il seme del dubbio, del sospetto, dell’odio. Stritolati da questo meccanismo, molti protagonisti del calcio, quando perdono, si lamentano. Dell’arbitro, del guardalinee, del rimbalzo del pallone o dell’alito fetente dell’avversario. Devono farlo, altrimenti “i tifosi” si indignano. E così si perpetua l’idea che per essere un vero tifoso di calcio, bisogna innanzitutto tifare contro. Il “titolare” del tifo calcistico è l’ultras che passa il tempo con le spalle girate al campo per far urlare gli altri, quasi indifferente a quello che succede in campo. Il tifoso della pallavolo, ma oserei dire di tutti gli altri sport, è una persona “normale” che, pur simpatizzando per una squadra, guarda la partita con attenzione, magari anche soffrendo, ma che non andrebbe mai oltre qualche fischio o qualche sfottò agli avversari. No, non è vero che il calcio è uno sport per trogloditi, come sostiene qualche radical chic appassionato di pelota basca. È forse lo sport più bello al mondo.
I trogloditi sono quelli che vanno allo stadio come se dovessero andare in battaglia. Quelli che parlano dei tifosi avversari come se parlassero di nemici da sterminare. Quelli che, purtroppo, vivono il calcio come la politica, dividendo il mondo in due grandi categorie: i giusti, loro, ed i cattivi, gli altri. Che qualcuno ce ne liberi.
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