Cerca

Alla ricerca della lingua piemontese

Alla ricerca della lingua piemontese

In foto la pagina iniziale di uno dei Sermoni Subalpini (Torino, Biblioteca Nazionale)

Dalla letteratura piemontese del nostro tempo facciamo ora un salto all’indietro. Un salto che, con la sua ampiezza, ci farà arrivare addirittura alla fine del secolo XII o al massimo ai primi anni del XIII, quando cioè (quanti di voi l’avrebbero detto?) si ha la prima testimonianza di un documento letterario (i cosiddetti Sermoni Subalpini) scritto nella lingua antenata del piemontese moderno: l’idioma volgare che si parlava nella nostra regione circa 800 anni fa e che, passando poi attraverso varie fasi storiche e trasformazioni socio-culturali, si sarebbe sviluppato in quello che è il piemontese odierno.

Or qual pera li trovarem sot lo pe? Berillum, qui a color cum aiva torbola e relus si cum lo rai del soleil en l’aiva// Ora cola pera i trovroma sota ’l pé? Berillum, che a l’ha ’l color coma eva tërbola e a relus coma ’l ragg dël sol ant l’eva

(Adesso quale pietra troveremo sotto il piede? Berillum, che ha il colore come acqua torbida e riflette come il raggio del sole nell’acqua; Sermone IX)

La mia maisun si est maisun d’oraciun, mas vos en avez fait balma de lairuns// La mia mison a l’é mison d’orassion, ma voi i l’eve fane balma ’d ladron () (La mia casa è casa di preghiera, ma voi ne avete fatto spelonca di ladroni; Sermone XIV).

Fatta salva la grafia di tutti i testi antecedenti alla riforma ortografica del Pipino (1783), grafia parecchio diversa da quella cui siamo abituati, se noi leggiamo anche solo questi brevi passi tratti da due dei ventidue sermoni (prediche) festivi che costituiscono la nostra testimonianza più antica e li paragoniamo alla loro “traduzione” in piemontese moderno, non possiamo non notare, pur con qualche differenza, le molte somiglianze tra questa lingua e quella nostra di oggi, a testimoniare come il latino parlato nelle nostre terre si stesse evolvendo in quegli anni in modo diverso, anche se omogeneo, rispetto all’evoluzione presente sia ad occidente (la Francia) che ad oriente (la Lombardia).

Basterebbero le parole pera (pietra), pe (piede), color (colore), aiva (eva; acqua), torbola (tërbola; torbida), maisun (casa: attenzione! non si tratta di francesismo, ma di vocabolo autoctono, dal latino mansio, come testimoniato dal suo uso ancora presente in zone come le Langhe o le valli alpine), balma (spelonca) a dirci che il latino volgare parlato in Piemonte in quei secoli si stava evolvendo in modo autonomo rispetto alle altre lingue limitrofe (parlate francesi e parlate italiane) e che questa evoluzione, nel corso dei secoli, avrebbe portato non solo ai singoli dialetti locali del Piemonte, ma anche alla lingua piemontese comune (la koinè).

Ma chi fu l’autore di queste prediche?

Ovviamente non si sa, come è buona tradizione per moltissimi dei testi più antichi ed importanti della storia di molte lingue. Si può solo ipotizzare che fosse, ovviamente, un chierico e, altrettanto ovviamente, di buona cultura, ma capace di trasporre questa sua cultura in un linguaggio popolare semplice e chiaro. Nemmeno il luogo di origine dei sermoni è sicuro: qualche studioso ha azzardato Torino, altri il Canavese e altri ancora (più recentemente) la valle di Susa. Tutto comunque ci porta al territorio piemontese ed agli anni intorno al 1180 o poco più tardi: bisogna ammettere quindi che i ventidue Sermoni sono la testimonianza più antica della nostra lingua.

Da questi tempi antichissimi dobbiamo poi però fare un altro salto (in avanti questa volta…) alquanto lungo e arrivare al secolo XIV, periodo in cui possiamo situare alcune altre testimonianze, e cioè il Detto del re e della regina (un poemetto, con i versi intercalati da proverbi, il cui testo si trova in un codice della Biblioteca capitolare di Novara, e il cui autore, o trascrittore, è un certo fra’ Columba de Vinchio), ma soprattutto gli Statuti dell’Ospizio della Società di San Giorgio del popolo di Chieri, il più antico testo piemontese di cui si conosca con certezza la data di stesura (a 25 dì del meis de loign; 25 luglio, del 1321) e il luogo (Chieri, appunto).

Si tratta della Costituzione, dello Statuto e del Giuramento dei Rettori della Compagnia di San Giorgio di Chieri, che in quell’antico comune rappresentava la parte popolare. Il manoscritto si trova presso l’archivio comunale di Chieri e in esso troviamo forme piemontesi schiette, come lay (legge), fay (fede), De (Dio), sarament (giuramento), crior (banditore), resior (rettore).

Per tornare poi a fra’ Columba de Vinchio ecco due esempi dei proverbi da lui trascritti tra i versi del Detto: Laron invola forment e lo va semenar;/ no pecca lo camp che lo fa meruar [Ladron a ’nvòla ’l forment e a va sëmnelo/ a fà nen pëcà ’l camp ch’a lo fà muré] (Il ladro ruba il frumento e lo va a seminare;/ non pecca il campo che lo fa maturare) e Se usel in càpia dè canter,/ poca esca dè manger [Se osel an gabia a dev canté/ pòca ësca a dev mangé] (Se uccello in gabbia deve cantare,/ poca esca deve mangiare).

Passando poi al secolo XV troviamo alcune (poche purtroppo) testimonianze, sia di carattere letterario, come la Canzone per la presa di Pancalieri, un componimento di 24 versi di genere epico e di autore ignoto scritto nel 1410, anno in cui il castello, di cui si dice che è tut entorn environà/ de gent de pe e de gent d’arme (tutto attorno circondato/ da gente a piedi e da gente d’arme), cadde in mano dei Savoia, in lotta coi Marchesi di Saluzzo, lo mercol, ady vint nof de ottobre; sia di genere documentario, come la Sentenza di Rivalta, un documento giudiziario (del 1446) che riguarda una promessa di nozze non mantenuta e da cui gli interessati vengono liberati. È sintomatico a questo proposito notare come un documento pubblico (una sentenza emessa dal Vicario dell’abate del monastero cistercense di Rivalta, da cui dipendeva la parrocchia di quel paese) fosse scritto nella lingua del popolo. Cercher e investigher la vrità de cost tal promixion di matrimoni e de cognescer de le cause matrimonial em la soa iuridicion…

Sempre al secolo XV andrebbe assegnato un testo conservato a Dronero (in provincia di Cuneo) relativo agli Ordinamenti dei Disciplinati e dei Raccomandati, cioè una confraternita religiosa di questa località ora chiamata Confraternita del Gonfalone. Va detto comunque che il testo dovrebbe essere più antico di almeno 100 anni, ma trascritto intorno alla metà del Quattrocento.

Cascum di fregl recomanday se debia confessar regularment tre volte l’an al so sacerdot, o a un autro prever de soa licentia… De la oration quest mod se debia tenir: per prima e tute le autre hore debia cascun dir XXV Pater Noster cum Gloria Patri e la sallutacion de la Vergine Maria… Come non riconoscere in queste poche righe i termini tuttora vivi fregl (frel, fratello) e prever (prèive, prete)?

Un posto a sé è occupato, anche nella nostra tradizione letteraria, dalla poesia religiosa, all’interno della quale troviamo (dal secolo XV al XVII) parecchi componimenti anonimi, come le Laudi, tra cui la Lamentatio Mariae di Torino, la Lamentatio lacrimosa o Lamentatio Domini della Collegiata di Santa Maria della Scala di Chieri (Bin devema tuit piorer cum gran dolor/ la dura mort del nostr bon creator [Dovoma bin tùit pioré con gran dolor/ la dura mòrt dël nòstr bon creator]: ciascun lettore può vedere come i due testi, antico e moderno, si rispondano in modo chiarissimo), la Laudatio Mariae del laudario di Saluzzo, le Laudationes di Carmagnola (un’orazione: Belli freli chi sei vegnù in questa present matina,/ ave fait el vostr debit; quelli chi son nent/ vegnù, ne poeno pa dir ansì. Anche in questo caso le rispondenze tra passato e presente sono evidentissime: freli/ frej, sei/ sé-seve, vegnù/ vnu, ave/ eve, fait/ fàit, nent/ nen…) e di Bra, costituita da due sermoni. Abbiamo poi la cosiddetta Pastorella semplice che, risalente ai primi anni del ’600 e pubblicata solamente nel 1947 da Pinin Pacòt, inizia con questi quattro versi: Me bei Pastor e me car Brgé/ na bonna neuva mi ’v venno dé/ santila tuit, e con allegressa,/ sta neuit j’é naje na gran blessa.

Bella la distinzione, allora ancora esistente, tra pastor (bovaro) e bërgé (pecoraio).

Altre forme di poesia religiosa sono le Recomendaciones, preghiere in piemontese che accompagnano le lodi (in italiano) del laudario di Saluzzo (fine del secolo XV). Anchor preerema lo Nostre Segnor Yhesu Crist per Meser lo Marchis de Saluce, che lo dea gracia de fer tal overe de que la soa anima sea salva e le nostre y prenen bona part.

Non dobbiamo poi dimenticare una serie di testimonianze costituite dai libri di scuola, in cui ad accompagnare il testo latino si trovavano note esplicative in volgare, cioè in piemontese.

Ne sono un esempio i frammenti di una miscellanea grammaticale di Biella che, studiati da Giuliano Gasca Queirazza, si trovano in un codice, probabilmente del secolo XV, conservato presso la Biblioteca Capitolare di Ivrea: essi riportano molti termini in volgare piemontese, con accanto la loro brava traduzione latina, e viceversa.

Altro esempio sono poi gli Anecdota Novaliciensia (studiati da Carlo Cipolla), della fine del secolo XIV, esercizi grammaticali scoperti nella rilegatura di un codice dell’abbazia della Novalesa in val di Susa ma provenienti, probabilmente, da ambiente vercellese. Esempi di questi esercizi sono frasi, tratte dalla realtà quotidiana e scritte nella lingua parlata, da tradurre in latino, come per esempio Menava lo so asenet cargà de bur a la fera de Verzegl, al s’è scontrà in tri luys (“Portava il suo asinello carico di burro alla fiera di Vercelli, si è imbattuto in tre lupi”.

Notate, vi prego, la forma sigmatica, cioè con la -s finale, del plurale luys, dal latino lupos accusativo, e non come in italiano da lupi nominativo, caratteristica che l’antico piemontese condivideva col francese); oppure ancora una frase quanto mai vicina all’esperienza degli studenti: O mayst, nuy scoler ve pregoma che abey misericordia de nuy che andoma merender, perché soma pe de carlevar, lo qual dé ferar, zo è ben manghar e ben bever.

È evidente che tutti i tempi a scuola si assomigliano: come non aver “misericordia” di scolari di tal genere, che chiedono al maestro di avere un po’ di vacanza in un momento (Carnevale è vicino) in cui è gradevole fare festa, cioè mangiar bene e bere altrettanto bene?

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori