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SETTIMO TORINESE. Le parole sono importanti

SETTIMO TORINESE. Le parole sono importanti

«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!», grida Michele Apicella (alias Nanni Moretti) ad una giornalista, seduti al bordo piscina nel film «Palombella rossa» (1989). Mi è tornato in mente questo aforisma, proprio adesso che la volgarità del linguaggio politico, che diventa giornalistico-mediatico, ha raggiunto vette inaspettate.

«Scaricati» è la parola ricorrente per parlare di migranti, operando la degradazione della persona allo stato di cosa. «Scaricare» infatti è l’azione di «togliere o far scendere un peso, un carico dal mezzo di trasporto su cui è caricato, dalla persona o dall’animale che lo trasporta: scaricare il grano, il carbone» (Treccani).

«Scaricare» è anche «liberarsi di una persona che si ritiene noiosa, sgradita», ma anche «lasciare, piantare: il fidanzato l’ha scaricata», (sempre il Treccani). Se si consulta lo Zingarelli del 1967, il verbo «scaricare» non è tra quelli riferiti all’azione verso una persona, piuttosto indica le azioni proprie di una persona (scaricare la vescica), vale a dire del soggetto che compie l’azione e non la subisce.

Papa Bergoglio ha parlato di loro (non solo di loro) come di coloro che vengono «scartati» cioè, sempre per il Treccani, sono il frutto dell’azione di «eliminare qualcosa dopo una scelta e, anche, le cose stesse eliminate: fare lo scarto delle mattonelle difettose».

Ecco, allora ci siamo arrivati. Ci stiamo pericolosamente avvicinando a un nuovo pogrom, cioè a quelle azioni violente compiute contro gli ebrei, spesso col beneplacito delle autorità, per ragioni economiche (cancellazioni di debiti non pagati), mascherate da motivi religiosi. Nel presente, le parole di alcuni ministri del neonato governo alimentano un ingiustificato risentimento verso coloro che, sfidando la sorte, approdano da noi. Per tutti, e non solo per quanto «ci costano» o per quelli che delinquono, dovrebbe parlare un ministro della Repubblica. A nome e per conto di una umanità dolente, a cui non riusciamo a portare validamente soccorso, dovrebbe alzare la voce. Invece… Invece costoro sono additati quasi a unica fonte dei nostri guai nazionali e, a dispregio delle loro vite, mostriamo i muscoli a una Europa matrigna.

Proprio perché le parole sono importanti, non ne ripeterò qui alcuna tra quelle impiegate dal ministro degli Interni (interprete ormai della nostra cattiva coscienza) per affrontare l’emergenza che non si infrange più sulle spiagge d’Italia, poiché anche l’approdo ai naufraghi ormai sembra impedito.

Le tensioni tra Stati nel definire quantità e costi, dis-umanizzando la parola, ci spinge ad accettare la riduzione di persona allo stato di cosa. Per giustificare le nostre nequizie, ci serviamo delle vergognose reti di filo spinato a protezione delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla in Marocco, della crudeltà che si è consumata nelle estati scorse a Ventimiglia e questo inverno a Bardonecchia e al Colle della Scala.

Come se questo stato di cose ci assolvesse di fronte alla storia.

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