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SETTIMO. Settimo, terra di immigrati

SETTIMO. Settimo, terra di immigrati

(foto d'archivio)

Ius soli, ius culturae, ius soli temperato, ius sanguinis, status civitatis, ius matrimonii... Oltre a rivalutare la tanto bistrattata lingua latina, il dibattito politico sulle norme per la cittadinanza italiana degli stranieri serve a rispolverare importanti problemi legati alle migrazioni del passato. In particolare, per quanto concerne Settimo Torinese, i flussi migratori sono un fenomeno ricorrente nella storia, fin da tempi lontanissimi. Essi risultano ben documentabili a partire dal XVII secolo, quando le fonti d’archivio, più numerose e precise, consentono d’inquadrare opportunamente la questione.

Intorno alla metà del Seicento, i registri di battesimo, matrimonio e sepoltura della parrocchia di San Pietro in Vincoli riportano le prime notizie di famiglie non settimesi che abitavano stabilmente nel vecchio borgo e nei cascinali circostanti. Il territorio, assai fertile nel suo complesso ma spopolato dalla peste del 1630-31 e dagli eventi bellici, offriva discrete opportunità di lavoro. Buona parte di quegli immigrati proveniva dalle colline sulla destra del Po, dalla pianura vercellese e dal Monregalese, dalle montagne del Canavese, di Lanzo e del Saluzzese. Alcune decine di famiglie erano originarie di Entracque, in Valle Gesso.

Anche nel Settecento, soprattutto dopo il trattato di Utrecht (1713) e nuovamente dopo la pace di Aquisgrana (1748), il territorio di Settimo fu interessato da un continuo e non trascurabile flusso migratorio. Per lo più i nuovi venuti erano contadini piemontesi, costretti ad abbandonare le zone dove maggiormente era diffusa la miseria, alla ricerca di un lavoro nelle cascine della pianura attorno a Torino. Da un «Rapporto statistico» del 1822 si apprende che la popolazione di Settimo, nel volgere di sei anni, era «aumentata di circa 130 anime per motivo che molte povere famiglie forestiere» avevano trovato lavoro nelle «grosse cassine» del territorio, le quali assicuravano «il travaglio d’agricoltura per quasi tutto l’anno».

Maggiore rilevanza assunsero i flussi migratori tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in un contesto socioeconomico radicalmente mutato rispetto al pas¬sato. I contadini, spinti a inurbarsi dal miraggio di un posto di lavoro nell’industria nascente, trovavano occupazione – talora stabile, talora stagionale – nelle prime manifatture tessili, nei bottonifici, nelle fornaci di laterizi, negli stabilimenti Schiapparelli, Paramatti, ecc. Così, dai poco meno di quattromila abitanti del 1881, la popolazione di Settimo si avvicinò ai cinquemila del 1901, per superare i seimila dopo la Grande guerra.

Gli anni Venti del secolo scorso furono caratterizzati da una forte espansione industriale e, conseguentemente, da un’inarrestabile crescita demografica, sia per la città di Torino sia per l’intera area attorno al capoluogo subalpino. Il «richiamo delle ciminiere» si manifestò fortissimo. Immigrati continuarono a giungere da varie zone del Piemonte, in genere dal Canavese e dalle colline del Po e del Monferrato. Cominciò inoltre il trasferimento dei primi veneti. Gli studiosi di questi fenomeni sono orientati a ritenere che, se non fosse intervenuta la crisi economica del 1929, su Torino e sui comuni della cintura si sarebbe abbattuta, ben prima della seconda guerra mondiale, l’ondata migratoria che caratterizzerà gli anni Sessanta, al tempo del grande esodo dal Meridione. A causa della crisi e della legge sulle migrazioni interne, invece, la crescita demografica si arrestò bruscamente, proprio quando l’aumento di nuove famiglie operaie in Settimo sembrava destinato a proseguire con ritmi sempre più intensi.

Ce n’è a sufficienza per affermare che Settimo Torinese è da sempre terra d’immigrazione.

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