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30 Ottobre 2017 - 11:30
“Civis romanus sum”: sono cittadino romano. Così i Latini esprimevano la loro appartenenza all’Urbe. Poter pronunciare quella frase significava acquisire diritti, come la facoltà di voto, ma anche assumersi precisi doveri, quali versare le tasse e mettere a disposizione della comunità le proprie energie come soldato o come uomo politico. Che cosa significa oggi essere cittadino italiano? L’obbligo militare è stato cancellato. Così come nel tardo impero i Romani preferivano mandare a morire gli abitanti delle provincie, anche noi certi lavori non li vogliamo più fare, al punto che presto i bambini cominceranno a credere che solo un rumeno possa fare il muratore o che per fare la badante sia obbligatorio essere nati ad est di Trieste. Di fare il contribuente francamente, ci siamo un po’ stufati. Più che la Roma repubblicana oggi il nostro Paese ricorda la Francia pre-rivoluzionaria, nella quale pochi godevano di consolidati privilegi e molti tiravano la cinghia per poterglieli garantire. Essere un elettore oggi è quasi una scocciatura. Il numero dei non votanti aumenta costantemente e può capitare che una città sia amministrata da un’oligarchia gradita a meno del trenta per cento dei cittadini. Infine mettere a disposizione il proprio buon senso nell’agone politico è un’utopia. Un buon politico deve saper urlare e fare demagogia, con buona pace di Cicerone per il quale “solo l’onestà e la rettitudine dei suoi reggitori, garantiscono la salvezza dello Stato”. E allora? E allora tra una celebrazione e l’altra delle vittorie della nazionale di calcio, quando ci riscopriamo tutti Italiani, proviamo a ridare un senso al concetto di cittadinanza. Proviamo a rivederla come un’opportunità di integrare nella comunità cittadini cresciuti nel rispetto delle leggi comuni e nella volontà ferrea di farle rispettare, educati allo spirito di solidarietà, al di là dei credo religiosi o politici. Non fermiamoci a considerare l’estensione della cittadinanza come un pericolo per i sacri confini, molto più minacciati dalle affascinanti arie di indipendenza che spirano forti da Barcellona a Venezia. Non limitiamoci a pensare che lo Ius soli ponga fine a chissà quali sofferenze di migliaia di bambini, perché loro sono già oltre, educati da una scuola capace di andare ben al di là di quello che le famiglie vogliono o possono fare. In Consiglio Comunale ho sostenuto l’ordine del giorno sullo Ius soli perché nei miei sogni c’è una comunità di buoni cittadini che si adoperano per la collettività, indipendentemente dalla loro origine. Ho anche detto che l’iniziativa dello sciopero della fame non mi piace. Troppo radical chic. Preferisco entrare in classe e ragionare con i ragazzi di Cicerone e della Nazionale di calcio, magari dopo aver mangiato un bel panino. Civis sum.
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