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26 Luglio 2017 - 15:45
Dopo che i discendenti di un paio di grandi famiglie del pensiero politico italiano si sono temporaneamente uniti, che rimane delle «spoglie» di quel che fu il più grande partito comunista dell’Occidente? La domanda torna di estrema attualità ora che parenti-serpenti (secondo un’arguta trovata del compianto regista Mario Monicelli), da quando nel piddì sono volati gli stracci e, in un valzer di composizione e ricomposizione delle alleanze interne nel quale è francamente difficile districarsi (chi sta con chi, ma prima non stavano insieme?), si son divisi.
Per «spoglie», precisiamolo, generalmente si intende l’elemento esterno «che serve di rivestimento, di copertura e simbolico (e che quindi si può togliere, cambiare, perdere)», nel caso specifico il cambiamento del nome e del simbolo con la decisione annunciata alla fine del 1989 da Achille Occhetto alla Bolognina. Come sappiamo, però, la forma è anche sostanza. Nel linguaggio politico e giornalistico, le «spoglie» indicano le cariche e gli uffici pubblici che i partiti e i gruppi politici vincitori delle elezioni usano spartire tra i loro aderenti, (spoils system appunto). Un mucchio di macerie, verrebbe da dire, guardando la vicenda del quotidiano l’Unità.
Il caso del quotidiano fondato da Antonio Gramsci è paradigmatico e – detto con franchezza – può essere a buon titolo richiamato a esempio del bis-pensiero di orwelliana memoria. La capacità infatti di sostenere un’idea e il suo opposto senza sentirsi caduti in contraddizione. Lo dico con le stesse parole di George Orwell: «bispensiero sta a significare la capacità di condividere simultaneamente due opinioni palesemente contradditorie e di accettarle entrambe».
Mentre in tutt’Italia si organizzano le feste dell’Unità, il comunicato stampa del Comitato di redazione del giornale titolava così: «lavorare per un giornale che non sarà in edicola, senza essere pagati. Lavorare per un giornale che non c’è: l’Unità». E ancora. Si nota uno scivolamento verso il meccanismo descritto da Orwell. La festa dell’Unità, nel linguaggio del piddì bolognese è diventata fest’Unità, una traslitterazione linguistica che diventa riscrittura del passato, vale a dire l’acquisizione della «particolare abilità nel credere che il nero sia bianco o addirittura d’aver mai creduto il contrario».
A paradosso si aggiunge paradosso: coloro che dovrebbero aver più caro il quotidiano fondato da Antonio Gramsci hanno adottato un altro nome: Festa del Lavoro l’hanno chiamata a Settimo, perché – si sa – la propaganda è l’anima del commercio, con buona pace di Antonio Gramsci e dell’Empireo dell’idea che fu. Per carità niente totem: da un bel pezzo l’Unità era diventata un megafono per la propaganda «della ditta».
Riferisce un’indagine che, dal 2003 al 2013, lo Stato ha versato ai giornali di partito 252 milioni di euro. In cima al podio l’Unità che nel periodo in questione ha incassato oltre 60 milioni di euro, distanziando tutti gli altri giornali, e non di poco. Nonostante il fiume di danaro, nel 2015 quasi l’80 per cento dei giornali aveva chiuso, poco più del 16 per cento stampava ancora e meno del 6 per cento sopravviveva in versione online. Adesso anche l’Unità.
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