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11 Luglio 2017 - 14:55
Rocco Schirripa
"I processi si celebrano in tribunale, non attraverso i media, ecco perché stigmatizziamo le notizie apparse su La Stampa. Screditano Rocco Schirripa e mettono in qualche modo, e senza alcuna prova in relazione il nostro cliente con l’omicidio del procuratore Bruno Caccia”.
Lo hanno voluto sottolineare sabato scorso ai giornalisti i legali di Rocco Schirripa, Mauro Anetrini e Basilio Foti.
La causa di tale ipotizzata relazione è legata al tipo di pistola, una calibro 7,65 mai ritrovata, usata sia nell’omicidio del Magistrato Bruno Caccia, avvenuto in via Sommacampagna a Torino il 26 giugno 1983 con 14 colpi di pistola, sia nell’omicidio del panettiere Pasquale Barbarino, 40 anni, seccato con sette colpi sparati da due pistole diverse, tre anni prima, il 7 giugno 1980, in piazza Pinelli a Cuorgnè.
Per quest’ultimo omicidio Rocco Schirripa fu incriminato ma qualche tempo dopo il caso venne archiviato.
La prossima udienza del processo Caccia, invece, si terrà il 17 luglio, con la richiesta della condanna all’ergastolo da parte del pm Marcello Tatangelo. Ecco perchè gli avvocati di Schirripa temono che il loro cliente possa venir danneggiato.
“Queste notizie false sul nostro cliente, a pochi giorni dall’udienza definitiva ci sconcertano - dicono i due legali - i giudici sono essere umani e leggono i giornali e potrebbero venire influenzati da queste illazioni senza alcuna prova. La Corte ormai deve solo decidere, le parti hanno concluso la loro attività, non si può accettare ingerenze mediatiche di questo genere”.
L’omicidio di Barbarino
C’è però che come per l’omicidio di Bruno Caccia, anche quello del panettiere di Cuorgnè rischia di essere riaperto per la evidente concomitanza di collegamenti.
Barbarino era sposato con Teresa Schirripa, sorella di Rocco, subito incriminato per concorso in omicidio, organizzato insieme a Santo Spatuzzi, 42 anni, operaio metallurgico.
In aula si costruì l’ipotesi di un delitto passionale e di quella bella maestra delle elementari, Lucia D’Avanzo di Joiosa Jonica ospitata dai Barbarino. Di lei si era innamorato Rocco ma era diventata l’amante di Barbarino.
Infine, tra i tanti misteri ce n’è uno legato al giudice Sebastiano Sorbello che indagò proprio sulla irrisolta morte di Barbarino.
Sorbello era infatti nella lista di quelli da eliminare dal clan dei catanesi in base ad un accordo stretto con il clan Belfiore.
Residente a Torrazza Piemonte e conosciuto dalle autorità giudiziarie fin dagli anni ’70, denunciato più volte per diversi reati, tra cui il gioco d’azzardo, un tentato omicidio, un furto e una rissa.
Nel 2011 Rocco Schirripa viene arrestato nell’ambito dell’operazione Minotauro, in quanto ritenuto affiliato al locale di Moncalieri. Patteggia 20 mesi e esce.
E’ tornato in galera nel dicembre del 2015 su ordine della Procura di Milano. Potrebbe infatti essere uno degli uomini che il 26 giugno del 1983 ammazzò a colpi di pistola l’allora procuratore capo di Torino Bruno Caccia, l’unico magistrato eliminato dalle cosche nel Nord Italia.
Per quell’agguato c’è già una condanna.
Domenico Belfiore, considerato il mandante, sta infatti scontando l’ergastolo dal 1989, anche se nel giugno del 2014 gli è stata concessa la detenzione domiciliare, a Settimo Torinese, per una grave malattia.
Anche lui originario di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), chiamato dagli amici Rocco ‘Barca’, già nel 1996 un pentito aveva ipotizzato il suo coinvolgimento precisando però che si trattava di una propria “deduzione”.
Vatti a fidare dei pentiti…
“Tu me ne ammazzi uno a me e io te ne ammazzo uno a te….”. E’ tutto codificato in queste poche parole il codice non scritto che regola i rapporti tra le famiglie della ‘ndrangheta. Un’organizzazione tanto potente quanto sanguinaria, che più e più volte ha macchiato di sangue le strade di quest’Italia e pure del Piemonte.
Nell’elenco degli omicidi irrisolti ce n’è uno che per molto tempo ha tenuto banco sul nostro giornale. E’ quello di Rocco Vincenzo Ursini (o Ursino) nipote del potente boss Mario Ursini, ‘u tiradritto. Scomparso a 28 anni, l’8 aprile del 2009.
Il suo nome lo avrebbe di recente fatto, in un colloquio con il Procuratore Aggiunto della dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri, il collaboratore di giustizia Antonio Femia.
“Purtroppo a me è dispiaciuto molto, perché era un mio coetaneo, andavamo a scuola insieme. Mario Ursini sa tutto. Perché aveva chiesto appoggio a noi. Siccome i miei cugini sono di base a Torino, ci ha chiesto di poter prendere la persona che ha commesso l’omicidio del nipote. Lo hanno ammazzato per una storia di droga e armi”.
E Antonio Femia sarebbe addirittura andato più in là, fornendo il nome del killer, poi trasformatosi in fuggitivo e solo per un caso fortuito non ancora diventato cadavere.
Poi, nel settembre del 2011, è arrivata l’operazione Minotauro della Procura di Torino (182 indagati) che solo di striscio tocca la locale di Moncalieri, poco meno di una decina di persone, e tra queste alcuni cognomi portano a Chivasso e a Torrazza Piemonte: Schirripa e Ursino (con la variante Ursini).
E sono cognomi storici della ‘ndrangheta sotto la Mole, sono le famiglie che prendono possesso del territorio negli anni ‘80, con la Mafia siciliana messa alle strette dalle rivelazioni del pentito Salvatore Parisi: Ursini a Settimo, Mappano e Caselle, i Belfiore con Schirripa a Moncalieri, gli Iaria in Canavese, i Franzè e i Pronestì a Orbassano, i Marando e gli Agresta a Volpiano e i quattro fratelli Ilacqua con la protezione di Rocco Gioffrè a Chivasso.
I Belfiore e gli “Ursini” o “Ursino”: due famiglie non a caso, considerando che sarebbero state loro, nel 1983 a ordinare ed eseguire l’omicidio del Procuratore della Repubblica Bruno Caccia. Tra gli indiziati “numero uno” proprio Mario Ursini (condannato a 26 anni di carcere e liberato dopo 10), e Domenico Belfiore (oggi all’ergastolo). Oggi si aggiunge Rocco Schirripa, tutte e tre di Gioiosa Jonica.
Nell’aprile del 2009, scompare Vincenzo Rocco Ursini, residente nel quartiere Blatta a Chivasso e nipote prediletto del boss Mario Ursini. La sua auto, un’Alfa 166, viene ritrovata in divieto di sosta a Mappano.
Nella ricostruzione dei carabinieri, quel giorno avrebbe dovuto accompagnare al lavoro la fidanzata, figlia del torrazzese Rocco Schirripa.
Nel 2010, da una lettura delle carte dell’inchiesta “Crimine” del procuratore Ilda Boccassini di Milano si apprende che lo avrebbero “fatto fuori” dei sicari della famiglia Macrì, in cerca di una posizione in Calabria e nel nord Italia.
Nella stessa inchiesta l’intercettazione di una conversazione avvenuta il 14 agosto del 2009 in un bar di Chivasso, crocevia di incontri tra malavitosi, “Il Timone” di Giovanni Vadalà (oggi in galera). A parlare è Giuseppe Commisso, il “mastro” della ‘ndrangheta: “Questo Mico Oppedisano, mi raccontava …(inc.)… Rocco Ursino, io non sapevo neanche di chi mi parlava… quel povero disgr… quello che è morto…”.
Secondo il racconto di Commisso, il giovane avrebbe avuto un debito di 20 mila euro, che sarebbe stato saldato col sangue.
Una storia che non si sarebbe svolta nella selvaggia provincia di Reggio Calabria, ma nella civile Torino, dove Oppedisano, sempre secondo il racconto di Commisso avrebbe “mandato a Rocco questo qua, che gli doveva dare ventimila euro… a dargli 10… poi hanno litigato, hanno girato voltato […] e all’ultimo lo hanno ucciso”.
In ogni caso Rocco Vincenzo Ursini sarebbe morto pochi mesi prima di sposare la figlia di Rocco Schirripa e anche su questo omicidio a Milano, si stanno accendendo nuovamente i riflettori.
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