San Sebastiano apre le sue porte a dodici ragazzi somali, dodici protagonisti di una delle moderne migrazioni che seguendo rotte impossibili ci ricordano sempre più l’Odissea di Omero; dalla metà di dicembre del 2016 la struttura di Cascina Caccia li sta ospitando nell’ambito di un progetto di accoglienza supervisionato dalla Cooperativa Sociale Nanà (nata da ACMOS): Andrea Sacco è il responsabile delegato di questo programma e del percorso italiano di queste anime e decido di andare a trovarlo; mi colpiscono la sua apertura e disponibilità, percepisco che sulla sua pelle ha vissuto anni di esperienza di umanità e non fatico a credere che i dodici apostoli somali lo vedano come il loro Cristo salvatore, colui che li ha pescati dal centro di accoglienza di Settimo dove la struttura è sempre più al limite e impone condizioni di vita quotidiana sempre più critiche, per iniziarli verso un futuro, si spera, migliore; Andrea sottolinea come l’approccio di ACMOS all’integrazione dei migranti sia quello di una vera e propria convivenza finalizzata a favorirne l’inserimento nel modo meno traumatico possibile e in effetti stando in mezzo a loro noto un’atmosfera serena e di fiducia reciproca. Dopo qualche istante, M. uno dei ragazzi, ci raggiunge e decide di adottarmi, una domanda e si scatena un fiume in piena forse spinto dal bisogno di trovare qualcuno che possa testimoniare e ascoltare le sue fatiche: il suo tono, la sua concitazione e il linguaggio del corpo vogliono avvertirmi che mi sta raccontando qualcosa di umanamente non ordinario. Ad un certo punto della loro esistenza i rifugiati si trovano di fronte ad una scelta: restare nel paese di origine rischiando la vita, fuggire in un paese confinante scomparendo in un campo profughi dove le possibilità sociali e di lavoro sono pressoché minime, tentare la sorte avviandosi sulla strada verso Nord; la Somalia, nel linguaggio della politica internazionale, è un “failed state”, un non stato che non è mai riuscito a raggiungere la stabilità e a dotarsi di strutture democratiche unificatrici, terra di violenza e di scontro tra fazioni, uno degli stati più violenti al mondo; M. è uno di quelli che ha scelto la terza via, ha 19 anni, sorriso facile e grande comunicatore, lascia Mogadiscio dove ha cinque fratelli e la madre e si avvia verso il suo girone dantesco, attraverso il Sudan e poi il deserto, su un autobus dove 80 persone devono reggersi in piedi uno accanto all’altro da mattina a sera immersi in un bagno di sole senza tregua, “three biscuits and one glass of water per day (tre biscotti e un bicchiere d’acqua al giorno)” mi dice, “nessun diritto al lamento, altrimenti venivi scaricato a terra”. Poi la Libia, l’anticamera della traversata verso la libertà, un limbo che per M. è durato 4 mesi: qui i libici non danno esempio di ospitalità, chi non ha i soldi viene obbligato a lavorare, violenze e angherie si abbattono sui deboli ignari di essere strumento per altri fini, ai trafficanti di uomini i soldi servono anche per finanziare Daesh (Isis); M. mi racconta anche di ragazze in stato di gravidanza che non possono andare in ospedale per non correre il rischio di dover rispondere a domande scomode ed essere vittime di ritorsione degli schiavisti. M. sposta pietre tutto il giorno e aspetta il suo momento; finalmente riesce ad imbarcarsi e dopo due giorni di navigazione in mare raggiunge la Sicilia, nel frattempo è passato un anno da quando ha lasciato la sua terra. Si considera fortunato, perché altri suoi compagni hanno impiegato anche 3 anni prima di fare il salto. La prima parola di italiano che M. ha imparato è stata “aspetta”, sbarcato in Italia è andato alla ricerca di un bagno, ma gli hanno detto che doveva aspettare; la prossima tappa è l’incontro con la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che deciderà se concedere l’asilo politico, sulla base delle motivazioni che l’hanno portato ad espatriare, delle condizioni del suo paese e cosi via. La procedura si concluderà tra circa un anno, “aspetta” è diventata la parola d’ordine per M. e i suoi amici. Eppure il nostro paese, dal suo racconto, emerge con un’immagine positiva: d’altra parte nel panorama europeo l’Italia, ponte naturale tra l’Africa e l’Europa, tra il Sud e il Nord, affronta il problema con onore e umanità, a differenza di altri paesi, anche nordici, che sono andati in preda a crisi di panico e di xenofobia con patetiche immagini di filo spinato ai confini. Manca il passaggio al livello successivo: la presa di coscienza che non siamo più di fronte ad una situazione eccezionale, ma che il movimento migratorio continuerà regolarmente negli anni a venire: per farvi fronte non bastano più soluzioni urgenti di breve durata ma si richiedono provvedimenti strutturali di lungo termine per far sì che il migrante non sia più un’emergenza. A livello locale Andrea mi fa notare che la riuscita dipende da un circolo virtuoso di comunicazione e partecipazione tra tutti gli attori coinvolti, amministrazione pubblica, popolazione, immigrati: nel caso specifico, a San Sebastiano ACMOS ha trovato un’ottima reazione della popolazione che non ha lesinato donazioni di vestiario e altri generi di prima necessità. Prima di salutarci con la promessa di rivederci M. mi chiede per che squadra tifo, rispondo che simpatizzo per la Juventus, e tu? chiedo io, “Cagliari” mi risponde emozionato, rimango sorpreso, com’è possibile che un ragazzo di Mogadiscio si sia legato al Cagliari…poi mi dice la Juve è una squadra importante, molto forte, troppo in alto, intuisco che il Cagliari forse è il simbolo della lotta per arrivare in vetta, del piccolo club con pochi soldi e tanti sogni che deve stringere i pugni e sudare per stare con le grandi, il simbolo del ragazzo di Mogadiscio che a soli 18 anni ha guardato in faccia la sorte avversa e ha deciso di rimontare la classifica.
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