Oggi, come realtà e “curiosità” storica, vorremmo rendere omaggio ad un Santo dalla figura titanica, pronta ad incarnare con il martirio il suo spirito rivoluzionario, credendo fermamente in una chiesa universale e liberatrice, di fronte al cospetto della superba “Religio Imperiale”. Abbiamo già sviscerato e discusso l’emblematico caso di quella miriade di soldati romani, appartenuti alla “Legione Tebea”, che per non tradire la fede, preferirono versare il loro sangue in tante località del Piemonte ed Oltralpe, anche quando si è cercato di enfatizzare o travisare, il più delle volte, una realtà veramente accaduta. Questa, similmente, è una vicenda iniziata dalla ligure Albenga, per giungere attraverso i contatti per il commercio del sale, l’ambito ecclesiastico e l’Abbazia della Fruttuaria, nel nostro territorio Canavesano ed in quello lombardo di Civate. Ed è proprio attraverso queste relazioni che sicuramente arrivò la devozione in Piemonte al martire cristiano Calocero: un “Defensor Fidei” al quale si offrì l’incarico di difendere dalle calamità, gli abitanti di Caluso e le altre comunità della Diocesi Eporediese. Il soldato romano Calocero si ritiene sia stato decapitato ad “Albigaunum”, molto probabilmente il più antico comprensorio di Albenga, denominato “ingauna”, centro dell'antica tribù ligure degli Ingauni, dedita all'attività marinara, con nucleo principale nell'odierna Albenga. Il suo martirio risale ai primi secoli cristiani, quando i devoti cominciarono a venerare il soldato romano che versò il sangue per non tradire la sua fedeltà cristiana, sotto la persecuzione di Adriano, nel II secolo e sepolto in una delle necropoli situate al di fuori della città, lungo la via “Julia Augusta”, a ridosso del monte a sud delle mura. L’ufficiale romano Calocero viene descritto come il comandante delle truppe che stanziavano nel territorio ingauno, e pertanto, dopo il processo per apostasia verso gli dei a Brescia, con strascichi a Milano, Tortona, Ivrea ed Asti, dove durante la sua prigionia in un sotterraneo della Torre Rossa di San Secondo ad Asti, pare avrebbe istruito nella fede San Secondo stesso, venne tradotto ad Albenga per essere giustiziato come esempio intimidatorio nei confronti della sua guarnigione. Ma il ricordo del culto si trova anche in altre località piemontesi, in aree ancora da indagare, come nei casi di Acqui Terme, con la chiesa scomparsa sull’omonima collinetta. E’ interessante notare che tutti questi edifici sono situati in diocesi aventi rapporti diretti con “L’Abbazia Canavesana diFruttuaria”, come risulta dal diploma di Enrico II, a favore di questo cenobio: “Episcopatibus atque Comitatibus Iporiensi, Mediolanensi, Ticinensi, Astensi, Aquensi, Albigaunensi, Saonensi et Terdonensi”, inducendo a pensare ad una propagazione devozionale di questo Santo, condotta attraverso reciproci contatti tra le varie dipendenze fruttuarensi. Anche Diano d’Alba, con una via e una cappella detta di “San Callocio” e Govone con “L’Ecclesie Sancti Caloceri de Govono”, di cui rimane il toponimo nel nome del “Bric” (colle), dove al posto della chiesa si trova ora il pilone “di S.Calocero” e della vicina cascina. Anche il passaggio di san Calocero da Milano viene associato ad una chiesa a lui dedicata nella via che ne ha poi preso il nome, in una pianta prospettica edita nel 1572 e S.Caloceri in una mappa del 1625. Qui, secondo la tradizione, sarebbe sgorgata improvvisamente una fonte utilizzata da Faustino e Giovita per battezzare il Santo. Molto si è discusso sulle vicende che sarebbero incorse riguardo le traslazioni di San Calocero e la questione non è ancora del tutto chiarita e probabilmente non si chiarirà mai, comunque ciò che sappiamo con certezza è che la “solenne traslazione” avvenne entro le mura della città nel 1593 presieduta dal vescovo LucaFieschi e la testimonianza delle sue reliquie rimangono tuttora custodite in un’urna del presbiterio, sistemate in una nicchia, nella Cattedrale ligure di San Michele dal 1884. Da Vendone invece, percorrendo una strada, in parte asfaltata, in parte sterrata, si arriva sulle pendici di Castell’Ermo: da qui, in venti minuti circa di marcia, si può raggiungere il Santuario di San Calocero, costruito sulla montagna più alta: “ecclesiae Sancti Caloceri de castro ermo”. Dal santuario ligure si gode di una stupenda vista panoramica e si dominano tutte le vallate circostanti. La chiesa, preceduta da un piccolo portico chiuso, riparo per i pellegrini, ha un'unica navata con due altari laterali. La statua marmorea del martire Calocero, sopra l'altare maggiore, è del XVIII secolo, ma esiste anche un'immagine lignea del Santo che, in occasione della festività, viene portata in processione dalla chiesa parrocchiale di Curenna fino al santuario. Successivamente molte altre chiese della zona erano dedicate al martire. La paleocristiana “alla Doria”, edificata sulla sua presunta tomba si aggiunsero quella “de Ponte Longo”, sorta sul luogo del martirio a nord-est della città, tra il Pontelungo e l’antica foce del Centa, quella “Intra Moenia” e sempre nei pressi di Albenga, si trovava “San Calocero de pratis”, in località Campore, in territorio di Campochiesa, alla quale era annessa una mansione di Templari. La presunta Tomba di San Calocero è conservata ad Albenga nel Museo Civico Ingauno, mentre nel Museo Diocesano è esposto un busto reliquario di risalente alla fine del XV secolo. Nel comune di Vendome, nella cappella della Natività, alla frazione Castellaro, si conserva un quadro ad olio su tela, risalente alla prima metà del XVII secolo. La figura eretta di San Calocero è facilmente riconoscibile in quanto è vestito da soldato romano e regge con la mano sinistra la palma del martirio, mentre con la destra impugna la lancia-vessillo. L’autore è stato identificato nel pittore seicentesco Bernardo Raibado. Invecee alla frazione Bargalla di Balestrino, in origine dedicata a San Calocero e considerata una delle più antiche della vallata, si conserva un’ancona rappresentante l’immagine di diversi santi, ma che da un’attenta visione pare che successivamente abbia subito dei pesanti ritocchi e che il personaggio in basso a sinistra, fosse, nella stesura originaria, il Santo martire. La posizione genuflessa su di un probabile ceppo, fa pensare ad uno degli strumenti del martirio di Calocero, appunto il ceppo su cui avrebbe posato il capo per la decapitazione, e l’edificio, posto al centro del paesaggio, potrebbe ricordare l’antico sacello sorto sul luogo in cui avvenne l’esecuzione. La fondazione della Chiesa di S.Calocero, in stretta relazione con la chiesa di S.Pietro al Monte di Civate, in provincia di Lecco si fa risalire al tempo del vescovo Angilberto II, che avrebbe trasportato le reliquie del santo martire da Albenga, per sottrarle alla profanazione dei musulmani. Ma saranno state veramente del martire le reliquie emigrate a Civate, oppure si usò lo stratagemma, non poi tanto raro, della loro sostituzione, aprendo, per l’occasione, una di quelle tombe “a cappuccina”, poi trovate vuote durante le indagini archeologiche? Impreziosita dall’imponente ciclo di affreschi della basilica di San Pietro, che ha come tema l'Apoteosi finale del Cristo e il Trionfo dei Giusti sulla falsariga dell'Apocalisse di san Giovanni, ne fa una tra le più importanti testimonianze romaniche lombarde. La leggenda di San Pietro al Monte narra che l'ultimo re longobardo Desiderio vi costruisse un cenobio nel 772 per la miracolosa guarigione dell'occhio del figlio Adelchi grazie alle acque di una fonte, che scorre a tutt'oggi vicino alla chiesa. Il vescovo di Milano Arnolfo volle essere seppellito a San Pietro 1097 dopo avervi trascorsi gli ultimi anni di vita e Il più antico documento, risalente al IX secolo, cita la presenza dell'abate Leutgario con trentacinque monaci benedettini legati al “Monastero di Pfäfers” in Svizzera. La testimonianza più antica su cui sorge l'abbazia di San Pietro al Monte, è legata al “Buco dellasabbia” , una caverna funeraria con tracce d'ossa, utensili e qualche graffito Fortunatamente la grotta è ancora testimonianza viva, inserita nell'ambiente naturale che l'ha vista nascere. Il monastero di San Pietro al Monte, a partire dal IX secolo con l'avvento di Lotario e degli abati franchi, aveva indubbiamente sostituito le funzioni di controllo militare, politico, economico ed amministrativo sino allora svolto dall'autorità laica, tuttavia, il momento storico determinava un motivo di arricchimento, perlomeno artistico, del monastero civatese. Nonostante infatti l'opinione comune che alla presa del potere imperiale da parte di Carlo Magno e le invasioni barbariche in Europa si fossero esaurite, gli Ungari continuarono ad operare indisturbati le loro incursioni seminando distruzioni, violenze, privazioni, devastazioni e saccheggi sino al 960. Anche le abbazie con i loro territori, tesori e beni, erano facilmente preda dell'irruente forza devastatrice. Nonostante tutto, questi anni oscuri, assistevano allo scambio vicendevole di ospitalità per le comunità monacali più colpite. Esse si rifugiavano nei monasteri più sicuri e protetti, favorendo il riallacciarsi di volta in volta i legami intellettuali ed il trasferirsi di conoscenze ed esperienze culturali. In definitiva le incursioni unne “favorirono” il diffondersi ed il confrontarsi di nuove idee ed esperienze in campo culturale ed artistico, smuovendo definitivamente il ristagno delle piccole comunità ricche di riflessione e percezione. In contrasto con la chiesa ufficiale milanese, Anselmo da Baggio, futuro papa Alessandro II, e Landolfo Cotta si posero a capo del movimento pàtaro in cui militavano Corrado II, figlio di Enrico IV re d'Italia, a sua volta re di Germania e duca di Borgogna, con Arnolfo III , che diventò vescovo di Milano dopo la morte di Anselmo III nel 1093. Le vicende di questo periodo sono ancora in parte oscure e comunque molto ingarbugliate nel loro susseguirsi. Comunque Arnolfo III era stato eletto dai vescovi elettori tedeschi ed estranei alla realtà della chiesa milanese che sosteneva il papato. Ed in quei frangenti l'opposizione nella città fu tale e così pericolosa, che Arnolfo, nonostante la protezione di Anselmo da Baggio, dovette rifugiarsi nell'Abbazia di Civate. Qui rimase per un certo periodo, prima del perdono papale e del suo riconoscimento ufficiale anche da Roma. Ed è in questo periodo che si terminavano in Civate le edificazioni del monastero di San Calocero a valle, l'oratorio di San Benedetto e le decorazioni plastiche e pittoriche in San Pietro al Monte. E' certo questo il momento più fulgido dell'abbazia. A conferma di ciò, si ascrive al XII secolo la realizzazione del Messale di Civate di rito monastico , uscito dallo “Scriptorium Civatese”, insieme al Manuale d'uso che risulta però di rito ambrosiano. Solamente due altri codici sono presenti nella “Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz” di Berlino . Sicuramente però, il diploma più importante è quello che, datato 1162, fa riconoscere allo stesso Federico I, proprio il “Barbarossa”, l'amicizia dell'abate Algiso a sostegno della sua lotta contro i comuni, quindi l'elenco dei numerosissimi possedimenti del monastero. Forse la causa fu proprio quest'ultima pericolosa alleanza la distruzione delle parti abitative del monastero stesso sulla montagna. Che il piccolo monastero collocato sul monte Pedale dovesse avere un’ importante storia, si spiegherebbe con la presenza di un grande personaggio: Paolo Diacono. Tuttavia, anche se una lapide posta sotto il pronao di San Pietro al Monte darebbe per certa la residenza momentanea del grande storico longobardo a Civate, nessun documento ce ne da diretta testimonianza, benché alcune sue opere, come il “Carmen Larii”, suggeriscano la sua permanenza su questo territorio. Se comunque Paolo Diacono non soggiornò a Civate, lo fece di certo un altro grande intellettuale, il “MagisterHildemarus” , sceso in Italia con un imperatore, Lotario, figlio di Ludovico il Pio. Lotario è un personaggio di rilievo fra gli imperatori carolingi e la sua vicenda è strettamente legata alle vicissitudini politiche che interessarono l'Impero alla metà del IX secolo. Nipote di Carlo Magno, aveva raccolto, dopo la riconciliazione con il padre, le insegne imperiali e l'impegno di continuità nell'unificazione politico-religiosa di tutti i territori del Sacro Romano Impero, ricevendo ad “Ingelheim” l'omaggio di Rabano Mauro, abate di Fulda, e degli abati di San Gallo e Coira, Abbazia limitrofa a “Reichenau”, nell'840. Questo fatto scatenò l'ira dei fratelli che, coalizzatisi col “Trattato diStrasburgo”, lo sconfissero e lo costrinsero a rifugiarsi in Italia. Egli dunque fuggì a sud delle Alpi, portando al suo seguito Wolvinio, suo architetto ed orafo, Wala, abate di Corbie e due altri abati di origine franca: Leodegario ed Ildemaro. Durante la fuga in un territorio a lui sconosciuto, Lotario dovette affidarsi all'ospitalità offerta dai suoi alleati e risiedere nei suoi possedimenti imperiali, tra cui San Pietro al Monte. I due abati franchi vennero incaricati, nell'841, di attendere nientemeno che al riordino della “Regola di San Benedetto” da parte del grande Angilberto. Quest'opera del “Magister Hildemarus” è di tale importanza che sarà diffusa in tutti i monasteri benedettini d'Europa e fu senza dubbio una delle prime grandi opere dello “scriptorium” del monastero civatese. A conferma della vicinanza del monastero con il partito imperiale, ancora nel XIII secolo, e più esattamente nel 1254, il monastero sarà rifugio di un altro arcivescovo di Milano, Leone da Perego, che fuggiva dalla furia dei popolari, a capo dei quali si trova Martino Torriani. Le brusche maniere del capoluogo lombardo si facevano dunque sempre più presenti nel monastero, fino a determinare la fine dello stesso. Divenne abate di Civate addirittura l'arcivescovo di Milano, Giovanni Visconti, che pare avesse rivendicato e documentato i diritti dell'abbazia contro il cugino Bernabò, Signore di Milano. Mal gliene incolse, dal momento che Bernabò Visconti lo fece trucidare, tagliare a pezzi e bruciare perché non si potesse nemmeno seppellire. Intanto però essere abate di Civate era un titolo al quale non corrispondeva più ad un ufficio effettivo. Ed il monastero andava svuotandosi: nel 1384 v'erano ormai solo due religiosi e i beni del monastero si disperdevano. Il Cardinale Ascanio Sforza, commendatario che fece restaurare la “Basilica di SanCalocero” nel 1500, concedeva alcuni possedimenti, tra cui " una casa de la mia abatia de Chiva" alle monache del Gesù”. Giulio II nel 1506 passò la commenda al Cardinale Antonio Trivulzio, vescovo di Como dal 1487, che lasciò in eredità l'abbazia al nipote Filippo finché questa, di mano in mano, arrivò a Nicolò Sfondrati, vescovo di Cremona poi divenuto papa Gregorio XIV. Fu lui che stipulò una convenzione con i “Monaci Olivetani”, che si impegnavano a mantenere a Civate sei religiosi sacerdoti. Gli Olivetani resteranno un po' stancamente a Civate fino alla soppressione dell'ordine, decretata dagli editti napoleonici, nel 1798. Allora il monastero a valle di San Calocero e l'oratoriodi San Benedetto furono venduti a privati e la basilica di San Pietro al Monte assegnata al municipio. In sintesi questa è la storia che segue, di passo in passo, il martirio di San Calocero praticamente in quasi tutto il nord Italia. Ma qual è il legame che consolida questo ufficiale romano convertito con reali di tutto rispetto, geniali artisti, futuri papi, nobili di alto lignaggio e un paese canavesano di piccole dimensioni come Caluso? Lo spiegheremo nel prossimo articolo.
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