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"IL BALSAMO DI GERUSALEMME"

"IL BALSAMO DI GERUSALEMME"
Il 10 marzo 1824, Giovan Battista Schiapparelli, acquistò dallo speziale Giovanni Brero, la ”Farmacia collegiata di Piazza San Giovanni”, a Torino, al prezzo di 16.500 lire, la quale diventò con il tempo “La Regia Farmacia XX Settembre”, un simbolo ancora oggi, posta quasi di fronte al Duomo. La Farmacia Schiapparelli, grazie alle sue originali preparazioni, diventerà il punto di partenza di molte principali case farmaceutiche nazionali. Famosa, tanto da diventare un appuntamento irrinunciabile per molti torinesi con la preparazione del "Balsamo di Gerusalemme", un tonico digestivo prodotto ancora oggi, di misteriosa e naturalmente segreta composizione, che possiede, si dice, un profumo quasi di “fiori sfatti” ed aveva fama di curare ogni tipo di malattia. La farmacia, le cui origini risalgono al XVI secolo, conserva ancor oggi gli arredamenti dell'epoca dello Schiapparelli: mobili e armadi in noce sui quali sono dipinti a fuoco gli stemmi di Casa Savoia, vetrate "a cattedrale" e vasellame preziosissimo. Alla fine dell'Ottocento la Regia Farmacia Schiapparelli, aveva progressivamente allargato la sua produzione, che ad esempio comprendeva la preparazione del ”Gengivario della Regina Clotilde”, oltre alla vendita di prodotti importati, uno fra tutti “L'olio di merluzzo norvegese”. Nei decenni seguenti la vocazione galenica della farmacia di via XX settembre è proseguita nel tempo, tanto che ancora oggi è tra le poche realtà torinesi a preparare farmaci in un moderno laboratorio.   Tutte queste preparazioni arrivarono in Occidente con le Crociate. Gli “Elisir” Orientali, venivano importati, come nuova concezione e di piacere e di realtà curativa. A metà tra il liquore e l’idea di un  farmaco miracoloso, si tratterebbe dell’”aliksir”, in arabo significato addirittura di “Pietra Filosofale” e utilizzato in Piemonte per indicare bevande che portavano con sé sempre uno scopo taumaturgico. Bisogna ammettere che a Torino, la farmacia di XX Settembre, sembrerebbe essere una delle poche che continua a portare avanti una secolare tradizione con meticolosa parsimonia, risultato di una consolidata tradizione. Un paziente e passionale lavoro, trascorso tra alambicchi e distillatori, che possedevano anche le abazie, e che con il tempo, in Piemonte, si diffusero ancora per tutto l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Popolari al punto che quasi tutti i posti di ristoro e le mescite ne possedevano qualcuno in alambicchi o in preziose bottiglie di cristallo, da centellinare per migliorare un disturbo gastrico o gustare una particolare e piacevole bevanda. Vi era addirittura un “Elisir di Caffè”, creato e diffuso durante la Prima Guerra Mondiale, quando il caffè “vero” era praticamente introvabile. Una pubblicità dell’ “Elixir Caffè” del Dottor Ottavio Botto-Micca di Lanzo Torinese veniva allora insignito con gran premio e medaglia d’onore e raccomandato dalle maggiori celebrità mediche. Ma se torniamo ancora più indietro nel tempo, ritroviamo la testimonianza, datata cinque gennaio 1773, di un’anonima madamigella, dalla scrittura ordinata, che annotava sul suo diario ”L’Elixir di Lunga Vita del medico Tamet”: “Morto all’età di 104 anni d’un calcio d’un cavallo mentre suo avolo morì all’età di anni 130, suo padre di 110 e sua madre di 107”. Ed una ancora precedente, un acqua medicinale, che per lunghi anni godette di  gran fama a Torino. Si trattava Dell’”Acqua Medicinale del Carmine”, che era preparata nel “Convento della Madonna del Carmine” dal frate Amedeo Rosso, morto nel 1792.   Ma se continuiamo a scorrere ancora più indietro nel tempo, l’interesse per alcune bevande diventa irresistibilmente curioso. Nelle case dei Torinesi era abitudine consolidata possedere “L’Acqua Bianca di Torino”, un particolare ed ormai perduto liquore che si preparava durante il Sei-Settecento a base di cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zucchero e alcol. Oppure “L’Acqua D’Oro”, molto conosciuto e consumato ancora nelle famiglie della Torino della prima metà dell’Ottocento. Gli ingredienti erano l’angelica, cannella, chiodi di garofano, scorzette di limone, zucchero e alcol. Nel recipiente venivano messi sottilissimi fogli di oro zecchino, a quei tempi creduti altamente curativi. Tra i prodotti raccomandabili presenti in una pubblicità  del 1930 dei Fratelli Grassotti di Rivarolo Canavese, antica Casa fondata nel 1872 in via Cristoforo Colombo al numero due, si fa menzione dell’”Acquavite Doree”. Si trattava forse di un tentativo di commercializzazione dell’Acqua D’oro nominata pocanzi? In un altro caso, con poco meno di quattro grammi di essenza di cedro e la stessa quantità di essenza di rosa e unendo un foglio d’argento per ogni bottiglia preparata, si otteneva così “L’Acqua D’Argento”. Innumerevoli comunque sono i tentativi di distillare “Elisir di Lunga Vita” nel disperato tentativo di prolungarsi l’esistenza o curare ogni malattia. Se ne potrebbero contare a centinaia tra manoscritti e pubblicazioni. Come la ricetta tardo-settecentesca per fare “LElixir Fino Composto dal Dottor Yemes Svedese”, che comprendeva, tra gli ingredienti, “L’Aloe Sucotrini”, (una pianta perenne delle liliacee, dalla quale si ricavava una droga medicinale purgativa), “L'Agarico” (una polvere cristallina ricavata da un fungo, sempre con proprietà purgative), genziana, china, rabarbaro e zafferano, la “Zeodaria”, i quali rizomi fornivano un liquido denso di colore verde, odore di zenzero e sapore amaro, ed infine il pezzo forte: “La Triacha fina di Venezia”, farmaco di origine antichissima, di preparazione e composizione complessa, si presentava come un bene comune: la carne di vipera, e veniva adoperato come antidoto contro ogni veleno. Dopo un periodo di particolare fortuna in età medioevale e rinascimentale, sopravvisse nella farmacia popolare fino ai primi decenni dell’Ottocento.   Tornando al “Balsamo di Gerusalemme”, siamo riusciti ad avere una copia di due manoscritti riguardo la sua misteriosa preparazione. Sicuramente vergati in epoche diverse, ma con la stessa grafia. L’autore è il liquorista-pasticcere Pietro Andreis di Savigliano, nel cuneese, che conservando un quadernetto scritto a mano nel 1881 e giunto indenne fino a noi, nonostante sia stato adoperato per decenni e quindi abbia dovuto patire l’usura del tempo trascorso, ne possiamo scorrere le pagine. Egli ne fornisce due versioni. Probabilmente, vista la popolarità che questa bevanda godeva ormai in tutto il Piemonte, trovò una sua intuitiva interpretazione nell’assaggio dell’originale. Le differenze in realtà non sono molte e gli ingredienti sembrerebbero (giustamente dosati) un sincero aiuto per la salute del fisico e per un momentaneo beneficio morale. Il primo ci indica la triacha, già citata, la valeriana, l’angelica, il rabarbaro, la noce moscata, poi l’immancabile aloe succotrina dell’epoca, ginepro pesto, la buccia di quattro limoni e di quattro aranci, venti chinotti e un po’ di acqua di rose. La seconda ricetta desidera forse dare un tocco di “Oriente”, aggiungendo la mirra al rabarbaro, alla china, alla radice di angelica e all’agarico bianco. Tutte e due le preparazioni  vanno lasciate in infusione per quindici giorni nell’alcol etilico e poi filtrate. Personalmente, se casualmente fossi entrato nella mescita di Pietro Andreis nell’anno 1881, conoscendo il suo diario, avrei preferito scegliere, per curiosità e per vivere forse più a lungo, “L’Elisir Garus”: mirra, chiodi di garofano, cannella, zafferano, arance e limoni sbucciati.
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