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CHIVASSO. I professionisti dell'antimafia

CHIVASSO. I professionisti dell'antimafia

"Non capisco l'antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività".

Lucia Borsellino

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  La premessa è che questo giornale - come sa chi ci segue da sempre - sulla ‘ndrangheta e sulla mafia, prima dell’inchiesta Minotauro, ha scritto fiumi di inchiostro, arrivando persino a organizzare, nel 2003, un dibattito al Cinema Moderno, con l’allora Procuratore Capo di Torino Giancarlo Caselli. Obiettivo dichiarato: sollecitare un interessamento dell’Amministrazione comunale chivassese nella confisca della villa di corso Galileo Ferraris, dato che fino a quel momento lì non s’era mai battuto un chiodo. E ancora La Voce nel luglio del 2010 preannunciando, con un anno di anticipo, la presenza della ‘ndrangheta in città, intercettata dalla Procura di Milano, al Bar Timone, in un’inchiesta (Crimine) di Ilda Boccassini. Tutto nero su bianco ma tutto inutile  (il Pd dormiva allegramente e gli altri partiti idem). Tutto inutile almeno sino a quando la Procura di Torino nel 2011 non scoperchiò il sistema, tremendamente radicato sul territorio. Da qui in avanti, cessato il ruolo di denuncia, di un fatto divenuto di pubblico dominio, ci siamo più volte domandati quale sarebbe dovuto diventare il nostro ruolo. La risposta è senza alcun dubbio solo una: dissacrare i tentativi di chi, con l’antimafia vorrebbe costruire percorsi amministrativi, politici e magari pure di carriera. Combattere insomma i “professionisti dell’antimafia”, come un po’ si atteggia ad esserlo il nostro sindaco Libero Ciuffreda, con l’università della legalità, tanti pippozzi e oggi pure con  un murale. C’è una tesi di Leonardo Sciascia, più volte ripresa da autorevoli giornalisti e pensatori. Disse: «La mafia si combatte non con la tensione delle sirene, dei cortei e della terribilità. La mafia si combatte col diritto.». La tesi è che è inutile attaccare la mafia, in maniera “mediaticamente” visibile, quindi conferenze, dichiarazioni, università delle legalità, toni altisonanti, partecipazione a cortei, fiaccolate eccetera. E ancora che “l’antimafia diventa un problema se viene utilizzata come mezzo per fare carriera, prescindendo dai propri reali meriti e volontà politiche, magari a scapito di gente più adatta a ricoprire certe cariche…” In un suo articolo, Sciascia evidenzia i mali della cultura dell’antimafia, cominciando dal fascismo e da quegli uomini che la applicarono in Sicilia. “L’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. [...] l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico". E quindi Sciascia, applica il ragionamento ai suoi tempi: “Prendiamo per esempio un sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso: anche se dedicherà tutto questo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall’acqua che manca all’immondizia che abbonda), si può considerare in una botte di ferro. Magari qualcuno, molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo: e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un’azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correrà il rischio di essere marchiato, e con lui tutti quelli che lo seguiranno". La tesi pubblicata sul Corriere della Sera nel 1987, con il titolo “I professionisti dell’antimafia”, fu una bomba mediatica senza precedenti, con Nando Dalla Chiesa, su L’Espresso («Non ti viene mai in mente di scrivere una bella terza pagina sui magistrati che fanno carriera proprio perché non attaccano la mafia, perché insabbiano?»),  Giampaolo Pansa su la Repubblica («Non riconosco il mio Sciascia, il nostro Sciascia. Dov’è lo scrittore civile, l’analista tagliente?») ma anche, controcorrente di Giorgio Bocca («Il vero torto di Sciascia è di esporre tesi, di muovere critiche, di fare ipotesi che stanno fuori dagli opposti schieramenti, che non collimano esattamente né con i dogmi dell’Antimafia né con le ipocrisie e le seduzioni della mafia. Seguendo un suo acuto intuito ha spesso indicato ciò che noi non sapevamo o non volevamo sapere».). E ancora non bastava. L'associazione Coordinamento Antimafia, che dallo scrittore venne definita «una frangia fanatica e stupida», lo tacciò d'essere un quaquaraquà «ai margini della società civile» e Marcello Padovani, sulle colonne del Nouvel Observateur, accusò Sciascia di avanzare «misere polemiche» a causa del suo «incoercibile esibizionismo». Insomma, Sciascia isolato solo per aver lanciato una riflessione sull’arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull’intoccabilità dell’antimafia. Sciascia così dirompente eppure così attuale, proprio sull’intoccabilità” dei professionisti dell’antimafia. Ancor di più oggi con le recenti dichiarazioni di Lucia Borsellino, figlia del magistrato che morì per mano della Mafia. "Non capisco l'antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività", ha detto. E significa che essere dell’antimafia non fa di un presidente un presidente migliore, o se si preferisce del miglior sindaco che si sarebbe potuti avere. C’è da crederle... Che i sindaci, a cominciare da Libero Ciuffreda, tornino dunque a fare i sindaci, occupandosi seriamente dell’amministrazione della cosa pubblica.   IL MURALE Un murale della legalità a Chivasso. C’è un minotauro e ci sono delle persone vestite di bianco. Verrà realizzato sul muro retrostante (lato ferrovia) e sul muro lato stazione della Biblioteca MoviMente. Ci costerà 5.534 euro, soldi che finiranno nelle casse di un’associazione non profit (Alternative Karming) a cui aderisce anche il figlio del sindaco. Cinque mila euro non saranno tanti, ma a Settimo, Montanaro e Ivrea, di murales se ne sono dipinti un sacco a costo zero. Cinquemila euro non saranno tanti, ma permetteteci almeno di non condividere il messaggio. Pesaro città degli omicidi! Sciacca capitale della pedofilia e, via di questo passo, Chivasso città della ‘ndrangheta? Assolutamente no! Governata da un professionista dell’antimafia? Beh, forse sì!      
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