“Enrico XIV di Svezia che regnò solamente dal 1560 al 1566 fu avvelenato per mezzo di una minestra di piselli secchi di cui era particolarmente goloso. Ancora oggi la minestra di piselli secchi viene denominata “La minestra del giovedì”, in quanto fu proprio quel giorno che gli venne servita”. Un sacerdote che aveva ricevuto la confessione di avvelenatori e avvelenatrici disse: “Per quelle persone il delitto diventa un’arte, con regole fisse e precise, al punto ad arrivare ad un irresistibile desiderio di avvelenare”. In effetti per lunghi secoli, quando la tossicologia era già un ramo della medicina, la tecnica medica rimaneva essenzialmente empirica, limitando ad associare le proprietà tossicologiche alla magia. Tutt’altra era la verità. Quando le sapienti manipolazioni e la complessità degli ingredienti, avevano trasformato cibi e bevande in una complessa composizione gastronomica, non si fece altro che favorire i cospiratori di Stato e gli assassini su commissione, in quanto il desco si presentava perfettamente ad occultare i potenti veleni che davano morti rapide o lente a seconda delle abilità del manipolatore. L’ancora attuale segno di “tradimento”, considerato tuttora un gesto sconsiderato, consiste nel versare al commensale che siede accanto alla vostra tavola, la bottiglia, usando la sola mano sinistra in un unico gesto. Oltre a rappresentare un atto di scortesia e maleducazione, la radice ha origini molto più lontane. In genere chi compiva questo gesto possedeva un anello con doppio fondo contenente un veleno liquido, o in molti casi in polvere, che lesto versava nel cibo o nelle bevande dello sfortunato prescelto senza che nessuno si accorgesse di ciò che stava avvenendo. In genere la morte poteva essere istantanea, come simile ad un infarto, oppure dopo lunghe agonie, che potevano durare ore o giorni, senza che nessun medico di allora, riuscisse a stabilire con certezza l’origine del malore mortale. Si trattava di infimi metodi e nel Piemonte ve ne sono stati alcuni casi che meritano essere ricordati. Uno dei primi processi per avvelenamento , risale al 1298 e la responsabile era Giovanna detta “LaClerionessa”, al servizio del Cavaliere Martino Borecco. Venne incarcerata con l’accusa di aver ucciso con il veleno, spacciandolo come elisir di giovinezza, un abitante di Giaveno. Per un paio di settimane rimase chiusa in cella, ma il processo e la relativa sentenza non furono mai pronunciati. L’astuta “Clerionessa”, riuscì a fuggire facendo perdere per sempre le sue tracce. Invece circa cento anni più tardi, si trovava sulla collina torinese, in Val San Martino Inferiore, Strada S. Anna 15, un castello con una particolare torre detta il “Maletto”, che dava all’edificio una forma quasi parallelepipedale. Nel Settecento, come in molti altri casi, si cercò di dare una nuova fisionomia all’antico castello, trasformandolo in villa gentilizia, anche se alcuni ruderi originali si possono ancora osservare nel giardino della residenza. Sappiamo che in questo edificio, in epoche diverse, vista la sua posizione isolata, vi soggiornarono importanti personaggi per discutere di politica e strategia militare. Ma ciò che più ci interessa è l’anno 1517, quando al castello viveva il Cavaliere Doriano Mannelli, personaggio dissoluto, spendaccione e amante delle più sfrenate orgie, quindi con le rendite sempre ridotte al minimo. Tra le sue varie scorribande, un giorno aveva portato con se AscanioQuirini, un suo amico parmense. Un grave errore del Cavaliere Doriano fu presentargli Lavinia Mannelli, la sua bellissima moglie, allora trentenne, con occhi verdi e capelli fulvi. Così mentre il marito continuava la sua vita tra lussi e cortigiane, Ascanio e Lavinia divennero fervidi amanti. Doriano si accorse della tresca che durava ormai da mesi, quando al castello si presentò una zingara spagnola, indovina e cartomante, il che non era infrequente in quei periodi. Venne accolta da Lavinia e posta sotto la sua protezione, soprattutto quando seppe che la donna si disse molto esperta riguardo ai veleni. La Mannelli gli aveva confessato il desiderio di sbarazzarsi del marito che ormai era diventato per lei un gran peso con i suoi sconsiderati comportamenti e i continui rimbrotti. La gitana allora gli nominò alcuni veleni che agivano lentamente senza lasciare alcuna traccia, o altri così rapidi che dopo essere stati ingeriti, uccidevano senza che vi fosse la possibilità di stabilirne la causa. Quando la perfida Lavinia decise di mettere in atto il suo diabolico piano, con una scusa, disse ad Ascanio di lasciare per qualche giorno il castello. La donna in quei giorni mise in atto il suo piano: mise in ciascuno dei piatti preferiti dal marito un pizzico di veleno lento. Non passò molto tempo che Doriano iniziò ad accusare dolori di stomaco accompagnati da nausee. Lavinia chiamò premurosamente il medico che gli diagnosticò un’indigestione e lei non lasciò mai il capezzale del marito per poterne seguire la lenta ma inesorabile azione del veleno. Ci furono solenni funerali e lacrime a profusione, ma quando Ascanio conobbe la verità, che Lavinia freddamente gli confidò, deplorò la sua vile azione, firmando così la sua condanna a morte. Un giorno la donna fece servire in tavola un dolce che paralizzò appena Ascanio lo assaggiò, ebbe un malore improvviso e il suo animo si riempì di paura. Fissando Lavinia negli occhi capì la vendicativa disapprovazione del suo rimprovero, mentre la donna lo osservava sorridendogli ironicamente, Ascanio tentò di alzarsi, ma cadde fulminato a terra. Lavinia fece sparire subito il corpo con l’aiuto di un garzone che assicurò il suo silenzio chiedendo in cambio una borsa di scudi. Il caso volle però che tempo dopo Lavinia sentisse il garzone chiacchiere del fatto con una governante. Con una scusa li invitò a sedere con lei per sorbire una tazza di tisana che lei stessa aveva confezionato, così i due incauti ciarlieri passarono dalla vita alla morte senza neppure accorgersene. Lavinia , questa volta da sola, trascinò in cantina i due cadaveri che finirono nelle cantine del castello, in un profondo pozzo, poi fece sparire tutto ciò che apparteneva ai due, spargendo la voce che fossero fuggiti insieme. Passarono alcuni mesi in tutta tranquillità, ma un giorno arrivò un fratello del marito in compagnia di un fidato amico e senza tanti preamboli ingiunse alla cognata di cedergli una parte dei terreni che gli spettavano di diritto, esibendo tanto di documento notarile. Lavinia li fece accomodare, li lesse e si dichiarò d’accordo invitandoli a trascorrere qualche tempo al castello perché gli ospiti si trovassero a loro agio e poter sedere con loro a tavola per discutere meglio la situazione. Forse Lavinia quella volta sbagliò le dosi del veleno, oppure il cognato e l’amico possedevano una particolare e robusta costituzione, comunque accusarono solo dei forti dolori di stomaco che durarono diverse ore. Lavinia, premurosamente, li curò con una nuova dose di veleno messa in una tisana calmante che aveva preparato lei stessa con le sue mani e questa volta l’effetto fu rapido per tutti e due i malcapitati. Non rimase alla terribile donna che la fatica e il fastidio di trascinarli in cantina e gettarli nel fatidico pozzo nelle cantine. Un giorno però arrivarono al castello alcuni uomini del Vicario di Polizia e si fermarono a chiacchierare con un servitore. Lavinia li osservava da una finestra e quando il vecchio maggiordomo gli annunciò che desiderava parlare con lei, il suo cambiamento si trasformò in terrore e pensò che i suoi delitti fossero stati scoperti. Vedendosi già arrestata, torturata e condannata alla pena capitale, si accostò ad una parete della stanza, aprì uno sportello celato da un arazzo e ne trasse il documento notarile del cognato. Lo gettò in un caminetto contemplando il fuoco distruttore che rapido e sicuro, consumava quelle carte compromettenti. Poi la sua bianca mano si portò sul petto, dove da una sottile catena pendeva una piccola boccetta ovale. Aveva sempre conservato quella boccetta consegnatagli da quella stessa zingara che l’aveva iniziata ai veleni: “Prendi questa boccetta e tienila sempre con te, essa contiene poche gocce di un veleno. Potresti un giorno averne bisogno, versale in un bicchiere d’acqua e passerai senza accorgerti al sonno eterno”. Prese un bicchiere e con mano ferma vuotò le gocce dalla boccetta trangugiando d’un fiato tutto il contenuto. Pochi secondi dopo, l’ufficiale di polizia trovava l’avvelenatrice Lavinia Mannelli esamine sul pavimento del salone dei ricevimenti. Un processo poco conosciuto per uxoricidio avvenne ai danni di Francesca Moretto nel 1785 e pare che la colpevolezza del suo atto non potesse avere scusanti. Il Tribunale di Torino la condannò per l’imputazione dell’assassinio del marito Giovanni Moretto e dal Senato di Torino leggiamo: “Condannata ad essere pubblicamente applicata per la gola fino a che l’anima non si sia separata dal corpo, precedentemente l’applicazione delle tenaglie infuocate a modi e luoghi soliti, e fatto il suo corpo cadavere, spiccarsele dal busto la testa, e affliggerla al patibolo”. Molti sono i fatti in questo periodo, relativi a questi crimini e per uno strano caso, uno non ce ne ha mai rivelato il nome, ma la prova fornita di questa intrigante vicenda era nota a Torino come “La Bela Capléra” (La Bella Cappellaia”). E’ noto che questa avvenente donna, possedesse una bottega a Torino all’angolo dell’attuale piazza Maria Vittoria, ed era sposata con un uomo geloso fino alla follia. Forse era anche vero che “La Bela Capléra” si trattenesse nel negozio più a lungo del solito con i clienti abituali , così il legittimo consorte, ascoltando le numerose malelingue, minacciò la donna di chiuderle il negozio e di obbligarla ad occuparsi solamente delle faccende di casa. Forse così successe, ma una sera l’uomo dopo aver gustato una minestra fumante, preparata dalla moglie, fu colto da spasimi fortissimi che gli procurarono la morte in poche ore. Erano da poco arrivati i Francesi a Torino nell’Ottocento e il nuovo strumento di morte si chiamava “ghigliottina” e la Bella Capléra fu la prima donna a sperimentarla. Nel frattempo, il boia, suggestionato dalle voci che giungevano dalla Francia, seppe che il suo collega d’Oltralpe, poco dopo aver eseguito la sentenza della connazionale Carlotta Corday , si era avventato sulla testa della vittima, ormai rotolato nella cesta, le aveva schiaffeggiato il viso in segno di disprezzo e il suo viso prese ad arrossarsi come colmo d’odio. Il boia torinese si recò così alla “Curia Maxima”, ottenendo il permesso che la vittima gli togliesse quell’atroce dubbio. La Bella Capléra accettò, ma quando il carnefice fece scendere la lama vide con raccapriccio che dagli occhi della donna scendevano copiose lacrime d’innocenza. Comunque è certo storicamente che gli avvelenamenti risolvevano parecchie questioni politiche evitando di scendere molte volte in guerra tra fazioni. Visse, per esempio un periodo alquanto animato Anna D’Alençon, dedita alla carità in forma quasi ossessiva: nella sua dimora erano permessi soltanto libri edificanti o di vite dei santi. Ma la misericordia e la santità a volte vengono annientate dal potete. Anna voleva a tutti i costi il controllo del Monferrato, allora molto potente e ambito dai Gonzaga, dai Francesi e quindi da Carlo V e Francesco I e naturalmente Federico alleato del Papa si trova dalla parte imperiale. Anna D’Alençon, per ragioni politiche viene data in matrimonio a nove anni; a sedici, dal buon soldato e buon marito Guglielmo Paleologo, nascono Maria nel 1509, Margherita, futura reggente del Monferrato, un anno dopo e Bonifacio nel 1512. Nel contempo il Gonzaga rimanda con le scuse più diverse, il viaggio che dovrebbe portarlo a Casale Monferrato per prendere con sé la moglie Maria, figlia di Anna D’Alençon, ormai quindicenne. In realtà, il giovane ha una relazione con Isabella Boschetto, che gli ha dato pure un figlio nel 1520 chiamato Alessandro. Il marito di lei, Conte Calvisano, ordisce allora un complotto per avvelenarla, ma viene scoperto ed arrestato. Ma Federico accusa Anna D’Alençon di avere ordito la congiura per liberarsi della figlia, per cui chiede e ottiene da papa Clemente VII l’annullamento del matrimonio proprio con Maria. Intanto, per una caduta da cavallo che lo calpesta, muore Bonifacio appena diciottenne. Federico Gonzaga torna velocemente sui propri passi. Ora più libero per annettere il Monferrato, tenta una riconciliazione con Anna D’Alençon per riprendere con sé Maria, e il piano gli riesce. Sarà lo stesso Clemente VII a riconsiderare valido il matrimonio, ma nel frattempo Maria, giusto diciannovenne, muore per tubercolosi ereditata dalla nonna paterna. Nessun problema: Federico e la suocera nel giro di venti giorni si affrettano a firmare il contratto di matrimonio con la secondogenita: Margherita Paleologa, con nozze celebrate il 3 ottobre 1531. Con la morte di Bonifacio , nel Monferrato si sono riaccese le pretese dei Savoia e dei Saluzzo, essendo il marchesato passato al fratello di Guglielmo, Giangiorgio, vecchio, malfermo di salute, abate di Lucedio, che per l’occasione lascia l’abito religioso. Anna D’Alençon e Federico Gonzaga chiedono l’investitura per Margherita, nel caso in cui Giangiorgio spiri senza eredi. Il 7 aprile 1533 Giangiorgio muore “dando moltissimo sangue”. Che sia stato, per così dire, “aiutato”? Il forte sospetto che si intuisce è che Anna e il genero, questa volta complici, abbiano voluto avvelenarlo, come estrema precauzione contro ogni pericolo di discendenza legittima. Casi come questo in Piemonte, in Italia e nell’intera Europa ne erano stracolmi. La marchesa Anna D’Alençon è intanto morta il 9 ottobre 1562 e sepolta in abito monacale nel coro della chiesa di Santa Caterina. Alla fama di virtuosa, caritatevole, ai limiti della santità, ben altro si celava nella figura della marchesa del Monferrato Anna D’Alençon. Miei cari lettori, di questi casi ve ne sono a centinaia.
Commentiscrivi/Scopri i commenti
Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce
Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter
...
Dentro la notiziaLa newsletter del giornale La Voce
LA VOCE DEL CANAVESE Reg. Tribunale di Torino n. 57 del 22/05/2007. Direttore responsabile: Liborio La Mattina. Proprietà LA VOCE SOCIETA’ COOPERATIVA. P.IVA 09594480015. Redazione: via Torino, 47 – 10034 – Chivasso (To). Tel. 0115367550 Cell. 3474431187
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70 e della Legge Regione Piemonte n. 18 del 25/06/2008. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Testi e foto qui pubblicati sono proprietà de LA VOCE DEL CANAVESE tutti i diritti sono riservati. L’utilizzo dei testi e delle foto on line è, senza autorizzazione scritta, vietato (legge 633/1941).
LA VOCE DEL CANAVESE ha aderito tramite la File (Federazione Italiana Liberi Editori) allo IAP – Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, accettando il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.