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IL PROCESSO DI RIVOLI

IL PROCESSO DI RIVOLI
“Quando mia madre morì avevo quattordici anni. In seguito nella vita di mio padre entrò la sua nuova moglie Margarita; da allora non ci fu più spazio per me a corte. Per anni i campi  di battaglia furono la mia casa, il mio destino non era quello di regnare, ma quello di difendere terre e confini. Di giorno il nemico era il soldato straniero, di notte il demone della solitudine. Lentamente il mio animo si inaridì, fino al punto di non provare più alcun dolore per ogni morte causata dalla mia mano. Le guerre sopivano la mia rabbia, la morte placava la mia ira: il demone si era impossessato di me…”       Filippo II D’Acaja dunque, il 15 agosto 1368, decise di rimanere volutamente rinchiuso nella fortezza di Fossano. Dopo un ampio carteggio che intercorse tra il Principe, affiancato dal Capitano di Ventura Monaco di Helz e Amedeo VI di Savoia, scelse infine di non scontrarsi sul campo di battaglia con il “Conte Verde”. Perché improvvisamente cercò di patteggiare una tacita sconfitta?  E’ lecito pensare a questo punto che vi fossero stati dei carteggi segreti tra il Capitano Monaco di Helz e Amedeo VI. Il Conte probabilmente, conoscendo a fondo il carattere mercenario dei Capitani di Ventura, lo convinse con il denaro ad abbandonare Filippo, che si ritrovò così senza i quarantanove soldati che dovevano combattere con lui sul campo. Questo lo deduciamo da un ordine di pagamento del mese di novembre 1368, fatto dal “Conte Verde” al Monaco di 4000 fiorini “pro facto Fossani”. In ogni caso Amedeo VI, non vedendo Filippo uscire dalla fortezza di Fossano per recarsi al combattimento, lo mise sotto assedio con i suoi armati, così Filippo, abbandonato dai suoi stipendiati, si arrese chiedendo al Conte un patteggiamento. Il “Conte Verde” accettò, tolse l’assedio e si recò a Savigliano il giorno 21 agosto per istituire le condizioni della resa. Il 15 settembre, alla presenza di due consiglieri eletti con giudizio legale e fede di giuramento, si convenne che Filippo avrebbe osservato la legittimità della successione voluta dal genitore, che non avrebbe introdotto novità sui domini posseduti finchè il giudizio non fosse stato espresso, che avrebbe restituito quelli che non gli erano aggiudicati, che avrebbe giurato fedeltà ai feudi dipendenti dal Conte di Savoia e che non avrebbe dato ricovero ai nemici del Conte o dei suoi fratelli Amedeo e Ludovico. Il “Conte Verde” si impegnava a sua volta, tre giorni dopo il giudizio, a consegnare i domini aggiudicati a Filippo, a difenderlo da chiunque e da qualunque ingiuria o caducità occorsa ai suoi feudi e di non partire per la Savoia prima della lettura del giudizio legale. Amedeo VI inoltre, per imporre maggior vincolo e stabilità a questa convenzione, obbligò Filippo a giurare in un luogo sacro. Si celebrò quindi una messa e poi si sottoscrisse il trattato sull’altare con l’ostia immacolata. Il “Conte Verde” nominò allora i giurespediti Raimondo Soleri e Gioanni Lageretti con l’incarico di sentenziare sulle disposizioni testamentarie di Giacomo D’Acaja. I commissari stabilirono il tribunale a Rivoli e Filippo D’Acaja nominò Giacomo Letardio come suo difensore, mentre Bonifacio de Motta fu istituito come procuratore dei giovani Amedeo e Ludovico. Filippo D’Acaja però, per meglio spiegare le proprie ragioni, avrebbe dovuto recarsi di persona a Rivoli, ma non intendeva uscire dalla fortezza di Fossano per paura di ritorsioni da parte della popolazione che aveva così brutalmente maltrattato ed era anche preoccupato, chiedendosi se quelle semplici condizioni della resa erano le vere intenzioni del “Conte Verde”. Gli domandò allora un salvacondotto per potersi recare a Rivoli. Amedeo VI non solo gli accordò un salvacondotto valido per il Piemonte, la Savoia e il Delfinato, ma anche cinquanta soldati come scorta. Con queste garanzie Filippo II D’Acaja partì da Fossano alla volta di Rivoli, dove lo aspettavano in aula di tribunale i Consiglieri, Margarita di Beaujeu con i figli Amedeo e Ludovico ed infine il “Conte Verde” in persona.       Intanto, per tutta quella metà di settembre, Margarita di Beaujeu, aveva fatto pressioni con Amedeo VI, ricordandogli come Filippo avesse indegnamente occupato a mano armata i luoghi e le fortezze di suo figlio Amedeo, erede universale, assoldando compagnie di avventurieri, associandosi a “malvagia gente” e come per mezzo suo e dei suoi, fossero stati commessi “omicidii, incendii, ruberie, rapine, ladronecci, adulterii, incesti e sacrilegi” sui popoli del Piemonte. Il 27 settembre Margarita presentò ufficialmente queste lagnanze ad Amedeo VI. Il “Conte Verde” a questo punto esercitò tutto il suo potere sedendo “pro tribunali” ed alla presenza di Margarita accusatrice e Filippo accusato, fece dare lettura degli articoli di cui era incriminato. Filippo cercò allora di difendersi, sicuro del salvacondotto rilasciatogli dal Conte, in cui si recitava “senza che per gli atti prima emessi se gli potesse inferir molestia”. Ma Margarita continuò ad insistere perché Filippo  fosse incarcerato, così Amedeo VI decise di sospendere il procedimento per riaggiornarlo il giorno successivo. Nel frattempo, perché “eravi pericolo che Filippo D’Acaja prendesse la fuga” e che Margarita “avrebbe potuto aver esposto il falso, e così aver calunniato Filippo” decise di dichiarare “posti in istato di prigionia e Margarita e Filippo”. Naturalmente il salvacondotto che Filippo invocava come difesa, gli era stato concesso dal Conte di Savoia non per condonargli i suoi misfatti, ma solamente per recarsi incolume dalla furia popolare, da Fossano a Rivoli; tanto che Filippo non era neanche in possesso di quel documento custodito a Vigone. Egli si avvalse allora di Antonio Galetti, un messo al suo servizio, garantendo di “scontare la pena, ove non fosse ritornato”. Ma questi, durante il viaggio, fu tradotto in prigione per “misfatti compiuti nel Piemonte”, così non fece mai ritorno. Il 28 settembre “sul far della sera” il “Conte Verde” presiedeva nuovamente il tribunale. Di fronte a lui vi erano Filippo “che seco aveva molti uomini di legge per difendersi” e Margarita. Egli presentò al Conte copia del salvacondotto speditogli dal cancelliere della Savoia Ravasio, concludendo che con quel documento non era tenuto a rispondere alle interrogazioni della matrigna. Opponeva Margarita che il salvacondotto non poteva liberarlo da tali accuse e chiedeva “che fosse coi complici suoi incarcerato, e che dei medesimi si prendesse giustizia”. Sentenziò allora il Conte che il salvacondotto non poteva giovare a Filippo, che era senz’altro tenuto a rispondere alle accuse e siccome il Galetti, per cui si era costituito cauzione, non era ritornato e che i delitti imputatogli richiedevano il carceramento, ordinò che questo fosse imprigionato. Incarcerato Filippo e riconosciute le accuse della matrigna, i crimini del processo si ritorsero interamente contro di lui.  Il “conte Verde” deputò Raimondo Soleri, Gioanni Lagerati, Simondo: giudice della Valle di Susa, Roberto Pugini, Pietro di Ponte e Bastiano di Montijeu per giudicarlo sui quarantotto capi di accusa contro la violazione delle disposizioni testamentarie di Giacomo D’Acaja e anche “a danno dei sudditi”. Sulle accuse furono sentiti diversi testimoni e Filippo stesso tentò di discolparsi. Da Rivoli intanto, era già stato condotto nella fortezza di Avigliana (foto), dove il 13 ottobre 1368 fu interrogato “infra aulam dicti castri”. I fatti di cui veniva imputato però erano alquanto noti, tanto che neanche lo stesso Filippo li negò, anche se a volte sostenne di non essere a conoscenza di alcune atrocità, che imputò all’operato delle compagnie di ventura e compiute quindi a sua insaputa. Terminò comunque raccomandandosi alla misericordia del “Conte Verde”. Già mentre i deputati del processo criminale di Rivoli interrogavano i testimoni sui fatti imputati a Filippo, i due consiglieri ai quali era affidata la decisione sui diritti della successione, pronunciarono il loro verdetto, riconfermando la legittimità del testamento del padre di Filippo, Giacomo D’Acaja. Come aggravante, siccome dopo la morte del padre, Filippo aveva adottato il titolo di “Principe D’Acaja”, giudicarono tale titolo appartenente al fratello Amedeo e gli proibirono quindi di farne uso. Dopo che Filippo fu interrogato un’ultima volta al castello di Avigliana il 13 ottobre 1368, non si è più riscontrata alcuna notizia di lui. E’ però certo che morì nell’ottobre di quell’anno, perché il giorno 12 dello stesso mese dell’anno 1369, Amedeo VI prometteva ad Alice de Thoire de Villars, vedova di Filippo, la restituzione della sua dote.       Sulla morte di Filippo II D’Acaja continua ad aleggiare l’ombra del mistero. Alcuni pensano ad un suicidio o ad un “abbandono alla morte” per essere stato ingiustamente diseredato dal padre e per l’onta subita in seguito al processo criminale; altri sostengono che sia stato condannato ad essere affogato nelle gelide acque del lago di Avigliana, citando anche un messaggio medianico dello stesso Filippo, quando il suo fantasma appare periodicamente da quelle acque, che ci fa sapere: “La mattina del 9 luglio 1367 (si è sbagliato di un anno, ma perdoniamo i defunti) fui fatto salire su una barca e portato al centro del grande lago di Avigliana; mi legarono stretto e mi misero alcuni pesanti sacchi alle caviglie. Mentre i miei occhi si riempivano dell’ultima alba, il boia mi spinse in acqua.  Il mio passato  mi tiene ora  intrappolato qui, le circostanze peccaminose che mi legano a queste terre ostruiscono  la mia strada per il riposo eterno;  nell’oscurità di una sera quattro figure hanno evocato la mia anima, con il tuo aiuto riuscirò  finalmente a trovar pace nel mio lungo sonno, ma dobbiamo muoverci, vieni con me…seguimi… (se ci dicesse magari dove…) Si racconta inoltre che Filippo II sopravvivesse all'annegamento per intercessione del Beato Umberto di Savoia, grazie al medaglione a lui dedicato che portava sempre con sé e  che scappasse a Fatima in Spagna e che qui vi morisse circa nel 1418. La tradizione vorrebbe punire anche la cattiveria della matrigna Margarita di Beaujeu, raccontando una fine ancora più orribile: “trascinata da due demoni fuori da una roccia improvvisamente spaccatasi e condotta piangente di fronte all'ombra nera della sua vittima”. Tornando nel mondo dei vivi, si potrebbe pensare, in base agli atti processuali, a non crederlo deceduto di morte violenta, ma che si sia effettivamente suicidato. E’ pertanto probabile, che dopo il suo suicidio sia stato gettato il cadavere nel lago di Avigliana, come la prescrizione dei canoni sottoscriveva per coloro che si erano dati la morte. Il non ritrovare alcuna notizia né della sua sepoltura, né della tomba e neanche menzione, negli atti originali del processo, di una sentenza, ci fa pensare che Filippo abbia rimesso volutamente la sua anima; perché se la sentenza fosse stata pronunciata, sarebbe pure stata descritta. Sicuramente il “Conte Verde”, non avrebbe avuto motivo e non avrebbe certo sofferto, se questo suo parente fosse stato condannato a morte, né avrebbe avuto timore, visti i fatti, di pronunciare un tale verdetto.
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