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31 Dicembre 2025 - 12:11
Casa di riposo (foto di repertorio)
Chi paga il conto della fragilità? La domanda è diventata politica dopo gli aumenti fino al 10% delle rette in alcune RSA piemontesi. Una fiammata che ha acceso il confronto tra Cgil e Regione, con il sindacato pronto a valutare una class action e la giunta guidata da Alberto Cirio che respinge ogni accusa. Nel mezzo restano migliaia di anziani non autosufficienti, famiglie alle prese con bollette sempre più alte e una quota sanitaria che continua a dividere.
Il nodo è sempre lo stesso: la copertura del 50% dei costi per i non autosufficienti in RSA, quella quota che per la Cgil rientra a pieno titolo nei Livelli essenziali di assistenza. Un diritto che, secondo il sindacato, non viene garantito a migliaia di persone, costringendo le famiglie a pagare di tasca propria, spesso in silenzio, per senso di responsabilità verso i propri cari. Silenzio che pesa, soprattutto quando le rette crescono e i conti arrivano a sfiorare i 40 mila euro l’anno.
A rompere l’equilibrio è stato Giorgio Airaudo, segretario regionale Cgil, che ha chiamato direttamente in causa gli assessori Maurizio Marrone e Federico Riboldi. «La misura è colma. Non è possibile accanirsi contro le persone fragili», ha detto, annunciando la raccolta di segnalazioni e la valutazione di azioni legali. Per il sindacato il problema non è solo la lista d’attesa, ma la negazione sostanziale di un diritto già previsto, con il peso economico scaricato sui familiari.
Nel dibattito entrano anche le opposizioni in Consiglio regionale, che attaccano su due fronti: risorse e rincari. Alice Ravinale (Avs) chiede «un serio confronto con il governo per avere più risorse» e definisce «un pessimo segnale» la bocciatura del loro ordine del giorno, ricordando che migliaia di famiglie superano i 40 mila euro l’anno di spesa. Sarah Disabato (M5S) va oltre e chiede la «sospensione immediata» degli aumenti, invitando a «rimettere al centro la dignità delle persone fragili».
La replica della Regione arriva per voce di Federico Riboldi, assessore di Fratelli d’Italia, che respinge le accuse punto per punto. «Il Dpcm sui Lea non è cambiato», sostiene. «È sempre prevista la compartecipazione degli assistiti al 50%, quindi non neghiamo nessuna quota». Sulle tempistiche garantisce che «la valutazione assegna un punteggio e, se sufficiente, la convenzione arriva entro 90 giorni». Quanto alle liste d’attesa, ammette «un minimo fisiologico», ma contesta i numeri circolati nel dibattito: i 9.347 casi citati nel nuovo piano socio-sanitario includerebbero, secondo l’assessore, persone non aventi diritto alla convenzione e situazioni per cui la normativa prevede fino a 12 mesi di attesa.
I numeri restano però sul tavolo e continuano a fare attrito: aumenti fino al 10%, copertura pubblica al 50%, 90 giorni promessi, oltre 9 mila persone in lista, decine di migliaia di euro l’anno a carico delle famiglie. Numeri che raccontano una realtà molto diversa a seconda di chi li legge e di chi li paga.
Ora la partita si sposta sul terreno delle scelte. La Cgil spinge sul riconoscimento dei diritti esigibili e non esclude la via giudiziaria. Le opposizioni chiedono un tavolo politico e il congelamento dei rincari. La giunta rivendica il rispetto delle regole e minimizza la portata delle attese. Ma la domanda iniziale resta senza risposta: la non autosufficienza è un diritto da garantire o un costo da sopportare? Perché finché l’assistenza continuerà a pesare sui bilanci familiari, il rischio è chiaro: trasformare la cura in un lusso per pochi e in un debito per molti.
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