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Ombre su Torino

Il massacro del Bar Celso: sangue, amore e vendetta nella Torino del 1953

Una donna, un amore impossibile, 700mila lire e due colpi di pistola: la notte in cui Stella Sullini trasformò un caffè di via XX Settembre in un inferno e finì condannata a 23 anni di carcere

Una pistola in mano e l'inferno nella testa.

29 dicembre 1953 ore 23.

A raccontarla sembra la scena di un film di Quentin Tarantino ma, mancando dieci anni alla venuta al mondo del regista italoamericano, quel martedì è tutto vero.

Davanti al Bar Celso di via XX Settembre 28 c’è una piccola folla tenuta a bada dalla polizia. “Non c’è niente da vedere” è sempre una delle frasi più gettonate in questi casi e, in effetti, all’esterno è proprio così. Superato l’ingresso di quel caffè nel centro di Torino, però, è come scendere all’inferno.

Il sangue ha ricoperto il bancone, il pavimento, le pareti. A terra, in mezzo a enormi macchie rossastre, c’è una borsetta aperta e due pistole, una calibro 6,35 e una scacciacani. Alcune bottiglie si sono frantumate in mille pezzi e, tra i loro taglienti residui, ci sono tre corpi.

Due sono affidati alle cure dei sanitari che sono subito giunti sul posto. Sono quelli di Giovanni Lisic, il proprietario dell’esercizio, colpito in testa e alla spalla destra e di Carmen, sua figlia, attinta da due proiettili all’addome. Il terzo è quello della responsabile della mattanza, Stella Sullini, bloccata da un agente.

La dinamica viene chiarita grazie alla presenza di due testimoni oculari, Maria De Felice, la cognata di Lisic, e Gino Vezza, un giovane cameriere.

Quella sera la sparatrice arriva al locale intorno alle 20, si siede a un tavolino e attende che i clienti, uno dopo l’altro, vadano via. Al momento buono, mentre Giovanni è intento a fare avanti e indietro dal magazzino con delle casse d’acqua in mano, lo avvicina parlandogli mezzo in italiano e mezzo in slavo perché lui è nato a Zara e lei a Zagabria.

All’improvviso una frase: “quando mi ridarai le 700mila lire che ti ho prestato?”. L’uomo non fa in tempo a rispondere e viene investito dal piombo. Abbattuto Lisic, la Sullini spara due volte a Carmen e poi si trova davanti Vezza che ha saltato il bancone per fermarla.

Stella gli punta la rivoltella, gli dice di restare immobile. Poi si gira verso la De Felice e tenta di colpirla con l’ultima pallottola rimasta nel caricatore ma Gino le sferra un pugno sul braccio facendo finire la cartuccia a conficcarsi nel muro.

All’ospedale in fin di vita, Giovanni Lisic muore il 30 dicembre e Carmen l’8 gennaio.



A processo, nell’ottobre 1954, Stella Sullini arriva quindi accusata di duplice omicidio. Il dibattito in aula racconta una vita degna di un romanzo.

La ragazza nasce nel 1920 nell’allora Jugoslavia in una ricca famiglia in odore di collaborazionismo coi nazisti. È per questo che, nel 1944, è costretta a fuggire. La rivoluzione dei titoini e la guerra civile gli uccidono il padre e gli mandano in campo di concentramento la madre e i fratelli.

Sola e senza soldi, riesce ad imbarcarsi per l’Inghilterra dove, in due anni, impara la lingua e intuisce che, in Italia, avrebbe potuto guadagnare bene insegnandola come istitutrice presso varie case signorili.

Dopo aver girato la penisola in lungo e in largo, nel 1952 arriva a Torino. Ammalatasi di pertosse, finisce ad abitare dalle Suore mantellate serve di Maria che hanno una pensione di fianco al bar di Lisic. I due, scoperto essere quasi paesani, fanno amicizia e, dopo poco Stella si innamora perdutamente di Giovanni.

L’uomo è sposato, ha 20 anni più di lei e non intende lasciare la moglie ma pare che, almeno all’inizio, sia lei che la figlia chiudano entrambi gli occhi. L’assassina dichiara in aula che, addirittura, la signora le avrebbe detto che non si faceva illusioni sulla fedeltà del marito e che, a quel punto, era meglio che si concedesse a una brava ragazza come lei.

Nonostante la fama di donnaiolo di Lisic, la Sullini pensa di aver trovato la felicità in sua compagnia, anche perché nel frattempo è andata ad abitare a casa sua e gli ha prestato 700mila lire: servono per abbellire il bar che poi la vittima avrebbe dovuto vendere per compare una pensione in Liguria e sistemare anche lei.

I suoi sogni, però, vengono distrutti nell’estate 1953. Prima scopre che il suo amante non avrebbe voluto portarsela in riviera e poi lo vede in atteggiamenti intimi in compagnia di due ragazze sulle rive del Sangone. A questo punto, sentitasi tradita e abbandonata, lascia casa Lisic e compra la pistola.

Riesce a stare lontana da Giovanni fino alla vigilia di Natale. Sente l’invidia verso la felicità di quelli che la circondano in un giorno così speciale e non può fare a meno di presentarsi al caffè. Qui chiede i soldi alla coniuge del morto e questa le dice che ci parlerà lei stessa, di stare tranquilla, di non tornare più. Non la ascolterà.

La sentenza stabilirà che, in realtà, il debito non è mai esistito e che Stella pretendeva quei soldi come risarcimento per il suo sogno d’amore distrutto. Considerava Giovanni alla stregua di un demone, la moglie come una maitresse che le concedeva i piaceri del consorte e la figlia come un mostro insensibile che le donava solo disprezzo.

Ammazza perché lasciata e, se avesse potuto, li avrebbe fatti fuori tutti.

Viene condannata a 30 anni in primo grado, ridotti a 23 anni e 3 mesi in appello.

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