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29 Dicembre 2025 - 09:00
Questa non è Europa: la generazione Z scende in piazza contro l’euro
Si chiama Ivan, ha ventidue anni, studia informatica all’università di Sofia e la sera lavora in un coworking trasformato in bar, dove i laptop convivono con le birre economiche e con una stanchezza che non ha nulla di romantico. Ivan non crede alle favole. Non ha mai creduto davvero a quella del “ritorno all’Europa”, né a quella dell’euro come destino inevitabile e felice. È cresciuto sentendo dire che l’Unione europea avrebbe risolto tutto: i salari, la corruzione, l’emigrazione di massa, il senso di periferia. Oggi guarda il suo conto in banca, fa il calcolo dell’affitto che salirà, dei prezzi che già ora corrono più veloci dei suoi guadagni, e scuote la testa. Quando gli chiedi perché scende in piazza contro l’euro, non parla di ideologia. Dice solo che non vuole essere preso in giro un’altra volta: e che non gli basta sentirsi ripetere che “andrà tutto bene” mentre la Bulgaria si prepara a introdurre la moneta unica il 1° gennaio 2026, data indicata come obiettivo nelle valutazioni ufficiali europee pubblicate nel 2025.
La storia di Ivan è diventata la storia di una generazione. In Bulgaria, nell’autunno del 2025, la Generazione Z è scesa in strada con una forza che ha colto di sorpresa governo, partiti, osservatori internazionali. Non sventolano bandiere nostalgiche, non cantano inni nazionalisti, non evocano il passato socialista. Il loro rifiuto dell’euro non nasce da un rigetto dell’Europa in sé, ma da una diffidenza profonda verso le promesse non mantenute, verso un linguaggio politico che parla di stabilità macroeconomica mentre la vita quotidiana diventa sempre più fragile. Per molti di loro, l’euro non è una moneta: è un simbolo. E il simbolo, questa volta, non funziona. In un Paese dove i sondaggi registrano una società spaccata e un livello di scetticismo elevato verso l’euro, con timori ricorrenti sull’aumento dei prezzi, i giovani non si limitano a “seguire” un sentimento: lo guidano, lo rendono visibile, lo portano davanti al Parlamento.
Questa generazione è cresciuta dentro una transizione permanente. Nata dopo il 1997, non ha memoria diretta del comunismo, ma ne porta addosso le conseguenze stratificate: istituzioni deboli, reti clientelari, un capitalismo improvvisato che ha arricchito pochi e lasciato molti a galleggiare. Ha visto i genitori lavorare duro senza riuscire a costruire sicurezza, ha visto amici e fratelli maggiori partire per Berlino, Londra, Milano, tornando a casa solo per Natale, con stipendi europei e un senso di sradicamento che nessuna retorica riesce a colmare. Per anni, l’euro è stato raccontato come il passaggio finale, il sigillo di appartenenza. Ma quando la data del 1° gennaio 2026 ha cominciato ad avvicinarsi davvero, con le istituzioni europee che nel giugno 2025 hanno formalizzato una valutazione positiva e con i ministri finanziari dell’Eurogruppo che hanno raccomandato l’ingresso, qualcosa si è rotto.
Le proteste non sono esplose all’improvviso. Hanno covato sotto la superficie, alimentate da un malessere che non trovava rappresentanza politica. Il detonatore è stata la bozza di bilancio del governo, percepita come un attacco diretto ai redditi più bassi e ai giovani. Qui la cronaca entra nei dettagli: la mobilitazione inizia il 26 novembre 2025, quando a Sofia scendono in strada circa 20.000 persone contro la proposta di bilancio 2026 annunciata dal governo guidato dal premier Rosen Zhelyazkov.
BULGARIA'S GEN Z UPRISING: THE DAY EUROPE’S YOUTH STOPPED WAITING
— Mario Nawfal (@MarioNawfal) December 13, 2025
Here’s a little-known fact: Bulgaria has had more elections in the past 4 years than Taylor Swift has had number-one hits. But even that revolving door of dysfunction didn’t prepare anyone for what happened… pic.twitter.com/DqeHpcTTdM
Dentro quella bozza, secondo quanto riportato da diverse fonti internazionali, c’erano misure che la piazza ha letto come “austerità travestita da responsabilità”: l’aumento dei contributi previdenziali e di sicurezza sociale, e un’impostazione fiscale più dura che includeva anche il raddoppio della tassa sui dividendi, con la promessa di “mettere a posto i conti” e presentarsi all’appuntamento dell’euro con i parametri in ordine.
A questo si aggiungeva la percezione, altrettanto incendiaria, di una spesa pubblica che cresceva e di un conto presentato soprattutto al settore privato, mentre l’opinione pubblica continuava a vedere immutati i meccanismi di potere che da anni alimentano sfiducia e rabbia.
In piazza, però, il bilancio è diventato rapidamente altro: il punto di partenza per una contestazione più ampia, che ha saldato economia, democrazia e futuro. La Generazione Z ha iniziato a dire apertamente ciò che per anni era rimasto sottotraccia: l’euro, così come viene proposto, rischia di essere l’ennesimo costo scaricato su chi ha meno potere contrattuale. Le parole “bilancio” e “euro” hanno finito per stare nella stessa frase, ogni sera, ogni diretta social, ogni discussione improvvisata tra studenti e lavoratori precari. Ed è lì che si vede la differenza: non è una protesta che si esaurisce in una richiesta singola, è una protesta che cresce per accumulo.
A differenza delle generazioni precedenti, questi giovani non chiedono di essere “protetti” dallo Stato in senso paternalistico. Chiedono coerenza. Sanno leggere i dati, confrontano i prezzi tra Paesi, guardano cosa è successo altrove. Hanno visto l’effetto psicologico dell’euro in economie più forti, ma anche l’impatto reale in contesti più fragili. Sanno che i salari bulgari restano bassi in termini europei e temono che l’adozione della moneta unica acceleri una dinamica già nota: prezzi che si allineano verso l’alto, stipendi che restano indietro. Non è paura irrazionale. È memoria economica, anche se indiretta, filtrata dai racconti dei genitori e dalle esperienze dei Paesi vicini. E mentre la Banca Centrale Europea riconosce i progressi macroeconomici e parla di convergenza, la piazza mette sul tavolo il nodo più elementare: la convergenza dei conti non è la convergenza della vita.
La narrazione ufficiale ha provato a liquidare il movimento come disinformato, emotivo, manipolato. Ma chi ha passato del tempo nelle piazze di Sofia sa che la realtà è più complessa. I cartelli non parlano di complotti, parlano di affitti, di bollette, di futuro. “Dateci un motivo per restare”, scrivono. È forse lo slogan più potente, perché racchiude tutto: la crisi demografica, l’emigrazione, la sensazione che la Bulgaria sia sempre chiamata a inseguire un modello deciso altrove. Per la Generazione Z, l’euro appare come una decisione calata dall’alto, presa da élite politiche percepite come distanti, quando non apertamente compromesse con sistemi di potere opachi.
Il tema della corruzione attraversa ogni conversazione. I giovani non separano la questione monetaria da quella democratica. Non credono che l’euro possa funzionare in un Paese dove lo Stato di diritto è fragile, dove figure oligarchiche continuano a esercitare un’influenza sproporzionata sulla politica e sull’economia. Nelle settimane di protesta ricompare con forza il nome di Delyan Peevski, simbolo per molti di quella “cattura dello Stato” di cui i bulgari discutono da anni: un potere che non ha bisogno di governare formalmente per condizionare la direzione del Paese.
Prima di cambiare moneta, dicono, bisognerebbe cambiare le regole del gioco. È un discorso che ricorre, con sorprendente maturità, nelle interviste improvvisate, nei video su TikTok, nei canali Telegram e nei racconti rilanciati anche da media internazionali che definiscono esplicitamente quelle mobilitazioni come “proteste Gen Z”.
Quando le manifestazioni sono cresciute fino a raggiungere decine di migliaia di persone, il governo ha iniziato a vacillare. Il ritiro della bozza di bilancio è stato il primo segnale e ha una data precisa: tra il 27 novembre e il 2 dicembre 2025, dopo le prime giornate di piazza e dopo pressioni crescenti, l’esecutivo annuncia il ritiro/ritiro formale della proposta di bilancio 2026 e anche delle cornici finanziarie collegate, con l’impegno a riscriverle dopo un confronto con sindacati e imprese.
Ma la piazza, a quel punto, non torna a casa. Il movimento si è già spostato dalla misura al metodo, dalla tassa al potere.
Il passaggio decisivo arriva all’inizio di dicembre. Il 1° dicembre 2025 in centro a Sofia, secondo stime riportate da più fonti, scendono tra 50.000 e 100.000 persone; in alcune ricostruzioni, con episodi di tensione e violenze, incendi e vandalismi contro sedi politiche.
Nei giorni successivi la mobilitazione continua, e le stime complessive dei partecipanti arrivano a cifre ancora più alte nelle date centrali della crisi, con un paese che vede scendere in piazza studenti, lavoratori, famiglie, e una diaspora che manifesta anche in varie città europee.
In televisione e nelle conferenze stampa, il potere tenta di ricondurre tutto a una protesta “sociale”, come se fosse solo un problema di bilancio; ma il lessico della strada parla già di “normalità europea”, di fine dell’impunità, di rifiuto di una transizione che somiglia sempre più a una condanna.
E qui entra la politica con nomi e cognomi. Il governo di Rosen Zhelyazkov, insediato dopo il voto parlamentare del 16 gennaio 2025, è sostenuto dall’asse guidato da GERB e da una coalizione più ampia e instabile; la figura di Boyko Borissov, leader di GERB, resta centrale nel racconto della crisi, anche quando le scelte vengono formalmente attribuite al governo.
Nelle settimane delle proteste, l’opposizione e varie componenti civiche insistono su un punto: l’euro non può diventare il pretesto per imporre aumenti fiscali e “aggiustamenti” senza consenso sociale, soprattutto in un paese dove la fiducia istituzionale è bassa e la corruzione è un tema quotidiano.
Poi arriva la frase che cambia tutto, e arriva dal Quirinale bulgaro, non dal governo. Il presidente Rumen Radev — attenzione: non si dimette, resta al suo posto — interviene pubblicamente e chiede che il governo lasci, aprendo il fronte istituzionale della crisi e rafforzando la piazza.
La “dimissione del presidente”, dunque, non c’è; quello che c’è è l’uso esplicito del peso della presidenza per chiedere la fine dell’esecutivo e nuove elezioni. La dimissione che arriva, invece, è quella del governo.
Le dimissioni hanno una data e un minuto politico preciso. L’11 dicembre 2025, pochi istanti prima che il Parlamento voti una mozione di sfiducia, Rosen Zhelyazkov annuncia in televisione le dimissioni del suo gabinetto. “Abbiamo ascoltato la voce delle persone che protestano”, dice in sostanza nella ricostruzione riportata da più testate; e il gesto diventa il fatto politico più clamoroso della stagione.
La Bulgaria si ritrova di nuovo sospesa: o un nuovo tentativo di formare maggioranza, o un governo ad interim nominato dal presidente e l’ennesimo ritorno alle urne.
Eppure, ridurre tutto a una vittoria sarebbe un errore. Il movimento contro l’euro non è monolitico e non è privo di contraddizioni. Alcuni temono che il rifiuto della moneta unica possa essere strumentalizzato da forze politiche euroscettiche o apertamente nazionaliste, o da partiti che hanno già cercato negli anni scorsi di capitalizzare la paura dell’aumento dei prezzi. Altri insistono nel distinguere: non è un no all’Europa, ma a questa Europa, a questo modo di decidere. È una linea sottile, difficile da comunicare all’esterno, soprattutto in un contesto mediatico che ama le semplificazioni. Ma è proprio in quella sottigliezza che si coglie la maturità del movimento.
La Generazione Z bulgara è profondamente europea nel senso culturale e digitale. Parla inglese con naturalezza, lavora da remoto per aziende straniere, si muove con disinvoltura tra piattaforme globali. Non sogna il ritorno a confini chiusi o a monete nazionali come feticci identitari. Chiede, piuttosto, che l’integrazione non sia una parola vuota. Che non significhi solo adeguarsi a parametri macroeconomici, ma costruire condizioni di vita dignitose. In questo senso, il rifiuto dell’euro diventa una forma di negoziazione politica: un modo per dire che il consenso non è automatico, che va guadagnato.
Ivan, intanto, continua a lavorare la sera. Partecipa alle assemblee informali, discute, litiga, cambia idea su alcune cose e ne rafforza altre. Non si illude che una protesta risolva tutto. Ma sa che il silenzio non risolve nulla. Quando gli chiedi se ha paura del futuro, risponde di sì, ma aggiunge subito che ha più paura di un futuro deciso senza di lui. Forse è questa la vera chiave per capire ciò che sta accadendo in Bulgaria. Non una rivolta contro una moneta, ma una rivolta contro l’idea che il futuro sia una favola raccontata sempre dagli stessi, con lo stesso finale, mentre i protagonisti restano fuori dalla scena. E quando il governo, per “mettere a posto i conti” in vista dell’euro, propone aumenti di contributi e imposte sui dividendi, mentre Commissione europea e organismi internazionali avvertono sui rischi di una manovra che potrebbe violare regole fiscali e deprimere investimenti, la piazza risponde con una domanda tagliente: chi paga davvero il prezzo della convergenza?
Nel cuore dell’Europa, in uno dei suoi Paesi più poveri e più giovani, la Generazione Z ha scelto di interrompere il racconto. Non sa ancora come andrà a finire. Ma ha deciso che non basta più credere. Bisogna partecipare. E se l’euro deve arrivare, dovrà farlo passando anche da loro, dalle loro domande, dalle loro paure, dalla loro richiesta elementare e radicale: non essere, ancora una volta, quelli che pagano il prezzo più alto di una promessa fatta ad altri.
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