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Cronaca

Carcere di Torino, l’allarme: troppi detenuti, pochi educatori. "Così si esce peggiori"

Sovraffollamento, carenze di personale ed educatori: la denuncia di Radicali, Possibile e Associazione Aglietta sul carcere di Torino

Torture in carcere a Torino

Torture in carcere a Torino (foto di repertorio)

Si entra per essere rieducati, si rischia di uscire peggiori. È questa l’accusa netta che emerge dalla nota congiunta firmata da Filippo Blengino, segretario nazionale di Radicali Italiani, Francesca Druetti, segretaria nazionale di Possibile, e Samuele Moccia, coordinatore dell’Associazione Aglietta, sul carcere di Torino. Una denuncia che va oltre i numeri e chiama in causa le condizioni quotidiane di vita, la carenza di personale e un disagio psichiatrico definito senza mezzi termini “fuori controllo”. In questo quadro, la funzione rieducativa della pena resta sulla carta, svuotata di strutture, competenze e risorse.

I numeri aiutano a capire la dimensione del problema. I detenuti presenti sono circa 1.450, a fronte di una capienza che registra circa 400 posti in meno. Una sproporzione che, secondo i firmatari, alimenta un sovraffollamento “intollerabile”, con effetti diretti sulla sicurezza, sulla dignità delle persone recluse e sulla possibilità stessa di costruire percorsi trattamentali credibili. Il carcere, così com’è, non corregge: logora.

Blengino, Druetti e Moccia parlano di tre criticità che si alimentano a vicenda: carenza cronica di personale, disagio psichiatrico fuori controllo e assenza di iniziative strutturali di reinserimento sociale. Chi entra oggi nel carcere di Torino ne uscirà con ogni probabilità peggior di come è entrato. Questo è inaccettabile, scrivono nella nota. Un giudizio che non lascia spazio a interpretazioni benevole.

Anche le misure che potrebbero rappresentare un passo avanti rischiano di restare simboliche. È il caso della “stanza dell’affetto”, indicata come una delle prime realizzate in Italia. Un segnale positivo sul piano dei legami familiari, ma insufficiente se non accompagnato da un intervento legislativo capace di trasformare le buone pratiche in standard diffusi. Senza una cornice normativa, avvertono i promotori della denuncia, l’eccezione resta tale e non incide sul sistema.

La vita quotidiana dentro l’istituto restituisce un quadro ancora più duro. Nel braccio C, le condizioni vengono definite “indegne”: strutture fatiscenti e circa 160 detenuti per piano. Spazi consumati, sovraffollati, dove la quotidianità si riduce a una gestione dell’emergenza continua, incompatibile con qualsiasi progetto rieducativo che voglia dirsi serio.

Il punto più critico, però, è quello che non si vede subito: la drammatica carenza di educatori. Senza la spina dorsale professionale che dovrebbe accompagnare i detenuti nei percorsi di cambiamento, la rieducazione diventa uno slogan vuoto. A questo si aggiunge un ulteriore squilibrio: a fronte di una presenza straniera significativa, in servizio c’è un solo mediatore culturale. Un limite che pesa sulla comprensione reciproca, sulla convivenza e sull’accesso stesso ai percorsi trattamentali.

Il risultato è un sistema in affanno, dove la finalità costituzionale della pena rischia di restare lettera morta. Sovraffollamento, personale insufficiente e disagio psichiatrico trasformano il carcere in un moltiplicatore di fragilità, non in uno strumento di recupero. È questo il cuore della denuncia: iniziative isolate non bastano se il quadro generale resta carente.

Dalla nota emergono priorità precise: un intervento del legislatore per rendere strutturali le buone pratiche, il rafforzamento degli organici — a partire dagli educatori —, servizi di salute mentale adeguati alla reale dimensione del problema, una mediazione culturale all’altezza della composizione della popolazione detenuta e percorsi di reinserimento sociale stabili e verificabili. In controluce, la richiesta è una sola: assumersi la responsabilità di un sistema che oggi produce più danni di quanti ne ripari. Perché la sicurezza vera non nasce dal contenimento, ma dalla capacità dello Stato di accompagnare chi sbaglia verso un ritorno possibile nella società.

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