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Città della Salute... Arriverà Bordon?

Direttori che arrivano, direttori che passano, voci che diventano nomine. A Torino la sanità si muove molto, governa poco e non disturba mai chi conta davvero

Città della Salute... Arriverà Bordon?

Paolo Bordon

Le voci corrono, si incrociano, rimbalzano tra Torino e Genova come accade sempre quando la politica sanitaria smette di parlare in pubblico e inizia a parlarsi addosso. E tutte, puntualmente, portano a un nome: Paolo Bordon. Nei palazzi della sanità piemontese se ne discute con sempre maggiore insistenza, a mezza voce ma non troppo, come se il finale fosse già scritto e mancasse solo il momento giusto per alzare il sipario.

Un suo possibile arrivo, nei prossimi mesi, alla guida della Città della Salute e della Scienza di Torino viene dato ormai come uno scenario credibile, se non imminente. Nulla di ufficiale, per ora. Solo smentite di rito, quelle che servono a prendere tempo. Ma il rumore è sufficiente per far capire che qualcosa si sta muovendo davvero.

Perché quando una voce resiste, cresce e si moltiplica, di solito non nasce per caso. E tanto meno in un luogo come la Città della Salute, dove ogni cambio di guida è sempre il risultato di equilibri politici più che di valutazioni sanitarie.

Per chi non lo conoscesse, Paolo Bordon oggi è il direttore generale dell’assessorato alla Sanità della Liguria, uno degli uomini chiave del presidente Marco Bucci, con cui ha condiviso la costruzione e l’impianto della riforma sanitaria regionale.

bordon

Un tecnico di fiducia, un profilo che garantisce affidabilità politica prima ancora che competenza manageriale. Prima della Liguria, una lunga carriera in Emilia-Romagna, al vertice dell’Asl di Bologna, una delle aziende sanitarie più grandi e complesse d’Italia. Un curriculum robusto, da “uomo delle situazioni difficili”. Insomma, uno che viene chiamato quando la partita è delicata.

E alla Città della Salute, dire "delicata"è un eufemismo.

Il grande polo ospedaliero torinese, infatti, non trova pace da anni. Un’instabilità cronica che racconta molto più della fragilità politica del sistema che non delle reali capacità dei singoli manager che si sono succeduti. Qui non si cambia guida perché le cose vanno male, ma perché qualcuno, da qualche parte, decide che è arrivato il momento di cambiare. Prima Thomas Schael, poi Livio Tranchida, ora le voci insistenti su Bordon. Un valzer continuo, una danza che sembra non conoscere conclusione, mentre intorno restano irrisolti gli stessi problemi strutturali.

Eppure Schael non era il problema. Anzi. Per molti addetti ai lavori è stato la migliore guida che la Città della Salute abbia avuto. È durato poco non perché incapace, ma perché troppo determinato. Schael aveva fatto quello che in pochi avevano osato prima di lui: toccare l’intoccabile. Aveva messo mano al tema dell’intramoenia, provando a riportare i medici dentro le strutture pubbliche, a ridurre quel confine sempre più labile tra sanità pubblica e attività privata che a Torino è diventato quasi una consuetudine. Un’eresia, per un sistema che su quell’equilibrio opaco ha costruito anni di "fortune" per alcuni medici del "bancomat".

Non solo. Schael aveva acceso un faro sui bilanci, e quando accendi un faro qualcosa emerge sempre. In particolare sugli incassi legati proprio all’intramoenia, che non tornavano e ancora non tornano. Numeri facili da spiegare, flussi poco chiari, domande legittime che però, in certi contesti, diventano immediatamente scomode. Troppo legittime, forse. Da lì in poi Schael è diventato, nel giro di poche settimane, “divisivo”, “poco dialogante”, “problematico”. Il lessico classico con cui si prepara un’uscita. Il siluramento è arrivato in tempi record, rapido e senza appello. Fine della parentesi. Fine delle domande.

Dopo di lui è toccato a Livio Tranchida, manager stimato, curriculum solido, chiamato a fare ciò che spesso viene richiesto a Torino: riportare calma. Ricucire, rassicurare, abbassare i toni, evitare scossoni. Un profilo perfetto per una fase di transizione. Peccato che alla Città della Salute la transizione sia diventata una condizione permanente, uno stato dell’essere più che una fase temporanea. Perché mentre Tranchida è ancora al timone, la politica guarda già oltre, come se il presente fosse solo un fastidioso intermezzo.

Ed è qui che le voci su Paolo Bordon diventano più insistenti. Lo scenario che circola è quello di un classico risiko sanitario, ormai collaudato: Tranchida promosso in Regione a guidare la sanità piemontese al posto di Antonino Sottile, attuale direttore generale dell’assessorato, da accompagnare con garbo verso l’uscita, e Bordon spedito a Torino per prendere in mano la Città della Salute. Tutto ordinato, tutto coerente. Tutto profondamente politico. Una partita giocata più sulle poltrone che sui progetti.

A fare da regista a questo continuo rimescolamento c’è l’assessore regionale Federico Riboldi, che sulla sanità piemontese sembra muoversi con una bussola tutta sua. Nessuna vera continuità, nessuna scelta che duri abbastanza da produrre effetti strutturali. 

Così oggi si parla di Bordon, ieri si parlava di Schael, domani si parlerà di qualcun altro. La Città della Salute resta lì, gigante fragile, ostaggio di una politica che confonde il governo con il rimescolamento delle poltrone. Cambiano i nomi sulle porte degli uffici, restano le stesse criticità nei reparti, negli ambulatori, nei bilanci.

Insomma, le voci su Paolo Bordon non nascono dal nulla. Nascono da una sanità che non ha pace e soprattutto da una domanda che a Torino continua a restare senza risposta, perché troppo scomoda per essere posta fino in fondo.  Chi governa davvero la sanità in Piemonte? La lobby dei medici o l'assessore alla sanità?

La Città della Salute e l’arte di non decidere

Alla Città della Salute non manca nulla. Medici, reparti, problemi. E soprattutto direttori. Un patrimonio che si rinnova di continuo, come le stagioni. È forse l’unico luogo del Piemonte dove la stabilità viene considerata un sintomo sospetto, da trattare prima che degeneri.

Ora si parla di Paolo Bordon. Non è arrivato, ma è già presente. In sanità funziona così: prima circolano le voci, poi arrivano le smentite, infine arriva il direttore. Le smentite non servono a negare, ma a prendere tempo. Una forma di bon ton istituzionale: “non ancora, ma preparatevi”.

Qualcuno potrebbe chiedersi perché alla Città della Salute si cambi guida con la puntualità di un cambio d’aria. La risposta è rassicurante: non è un problema di persone, è un capolavoro di sistema. Perché il direttore ideale è quello che cambia tutto, purché non cambi niente. Un principio antico, verghiano, quasi gattopardesco: tutto si muove perché tutto resti com’è.

C’è stato, è vero, un direttore (commissario) che non aveva capito la trama. Pensava che governare significasse governare. Ha guardato i conti, ha guardato l’intramoenia, ha fatto domande. Un comportamento apprezzabile in un corso di management, molto meno in un contesto dove le domande non sono previste dal copione. È durato il tempo di una stagione teatrale. Applausi educati. Sipario.

Da allora si preferisce la linea morbida. La transizione permanente, che è l’arte sopraffina di non arrivare mai da nessuna parte senza dare l’impressione di essere fermi. Il direttore come figura discreta, quasi ornamentale. C’è, ma non disturba. Firma, ma non incide. Amministra, ma senza lasciare segni. Il profilo perfetto.

A vigilare su questo equilibrio c’è una politica attentissima a una sola cosa: che nessuno rompa l’armonia. Cambiare direttore è molto più semplice che cambiare sistema. E infinitamente meno rischioso. Così si cambia, spesso. E si governa, poco.

Oggi si parla di Bordon, ieri si parlava di un altro, domani si parlerà di qualcun altro ancora. Tutti competenti, tutti provvisori, tutti perfettamente intercambiabili. Alla Città della Salute il vero errore non è sbagliare, ma durare abbastanza da farsi notare. Perché chi si nota, prima o poi, viene corretto.

Il risultato è un modello impeccabile. Nessuno decide mai davvero, quindi nessuno sbaglia mai davvero. E mentre i direttori passano come figure di un presepe che cambia solo disposizione, la sanità piemontese può continuare a fare ciò che sa fare meglio: cambiare tutto per non cambiare nulla.

Che non sarà una riforma.
Ma è una tradizione solidissima.

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