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Elkann.... L’anno da dimenticare, visto da Londra

Quando anche la Bibbia della finanza globale descrive John Elkann come un problema, l’anno non è solo da dimenticare ma da rileggere con attenzione

Elkann.... L’anno da dimenticare, visto da Londra

Elkann.... L’anno da dimenticare, visto da Londra

C’è un motivo preciso se vale la pena fermarsi, respirare e dedicare un lungo e articolato articolo a quello che il Financial Times ha scritto il 23 dicembre su John Elkann. No, non è improvvisa esterofilia. E nemmeno il fascino per la carta rosa dei salotti buoni della finanza globale. Il punto è un altro, molto più semplice e molto più spietato: quando il Financial Times decide di raccontarti come un problema, vuol dire che il problema esiste davvero. E, soprattutto, che ha superato i confini italiani.

Il quotidiano londinese non si occupa di beghe locali, non ama le faide di famiglia e non perde tempo con le liti di cortile. Se lo fa, è perché quelle liti hanno smesso di essere affari interni e sono diventate questioni rilevanti per il capitalismo globale. Così, con l’eleganza glaciale di chi non deve chiedere permesso a nessuno, il FT archivia il 2025 di Elkann con un titolo che basterebbe da solo a far sudare freddo qualsiasi presidente di holding: “John Elkann’s year to forget”. L’anno da dimenticare. Traduzione non autorizzata ma efficace: qualcosa si è inceppato.

Il pezzo è lungo, analitico, implacabile. Non cerca il colpo basso, non indulge nel pettegolezzo, non urla. Fa molto peggio: mette in fila i fatti. E quando i fatti vengono messi in fila, l’immagine che emerge non è quella del grande regista globale che anticipa il futuro, ma quella di un uomo che passa l’anno a difendersi, a spiegare, a gestire emergenze.

Il primo fronte è quello che, paradossalmente, dovrebbe essere il più solido: la famiglia. Il Financial Times racconta senza imbarazzi la lunga e logorante disputa ereditaria con Margherita Agnelli, madre di Elkann, legata alla successione di Marella Caracciolo Agnelli. Una vicenda che il giornale britannico presenta come tutt’altro che archiviata, ricordando come le questioni fiscali collegate all’eredità continuino a produrre strascichi e attenzioni giudiziarie. Non è il linguaggio dei tribunali italiani, ma il senso è chiarissimo: la dinastia Agnelli è ancora intrappolata in una guerra patrimoniale che intacca reputazione e stabilità.

Accordi milionari, contenziosi, procedure che riemergono anche dopo tentativi di chiusura: agli occhi del capitalismo anglosassone, quella che per decenni è stata raccontata come la famiglia simbolo dell’industria italiana appare sempre meno come una saga e sempre più come una faida ereditaria permanente, con effetti che vanno ben oltre la sfera privata.

Poi c’è Exor, la cassaforte di famiglia, il cuore finanziario dell’impero. Qui il Financial Times registra un dato che pesa più di qualsiasi commento: il nervosismo dei mercati. Le performance delle partecipazioni principali non convincono come un tempo, il valore complessivo del portafoglio viene messo in discussione e tra gli investitori cresce uno scetticismo che qualche anno fa sarebbe stato impensabile. L’ironia, sottile ma costante, è tutta qui: Elkann viene descritto come il grande stratega globale, ma i numeri raccontano un gruppo che difende posizioni più che crearne di nuove. Un capitalismo ordinato, certo, ma sempre meno capace di sorprendere.

Quando il Financial Times arriva a Ferrari, il tono cambia senza mai dichiararlo. Perché Ferrari è l’asset simbolico, quello che dovrebbe funzionare sempre, anche quando il resto scricchiola. E invece il giornale britannico si permette l’eresia: anche il Cavallino ha deluso. I risultati sportivi in Formula 1 non sono all’altezza delle aspettative, il rilancio annunciato fatica a materializzarsi e il peso simbolico delle sconfitte diventa rilevante proprio perché Ferrari non è solo un’azienda, ma un marchio-mito. Quando anche Ferrari entra nel capitolo dei problemi, il messaggio è chiaro: l’anno è stato davvero complicato, e non solo per fattori esterni.

elkann

Il dossier Stellantis è forse quello che più rivela la dimensione politica della crisi. Il Financial Times parla di cambi di leadership, di ristrutturazioni continue, di un gruppo che fatica a trovare una narrazione coerente mentre affronta difficoltà produttive e industriali. L’Europa, e in particolare l’Italia, appaiono come territori sempre più marginali in una strategia globale che guarda altrove. Il giornale non usa toni polemici, ma il sottotesto è evidente: presiedere un colosso globale senza produrre consenso nei luoghi in cui opera è un problema che prima o poi presenta il conto.

C’è poi la Juventus, che nel pezzo assume un valore altamente simbolico. Il Financial Times ricorda l’offerta non richiesta da oltre un miliardo di euro respinta da Elkann e la risposta ufficiale: la Juventus non è in vendita, perché rappresenta storia e valori. Una dichiarazione che, inserita nel contesto di un “anno da dimenticare”, suona meno come un atto di forza e più come una difesa identitaria, l’ennesimo fronte da presidiare in un periodo già carico di tensioni.

Infine, l’editoria. Gedi, la Repubblica, La Stampa. Il Financial Times osserva con attenzione le voci di dismissione, le proteste delle redazioni, il clima di incertezza. E coglie un punto che in Italia spesso viene rimosso: per la famiglia Agnelli-Elkann i giornali non sono mai stati semplicemente aziende, ma strumenti di influenza e di costruzione del consenso. Quando anche questo fronte vacilla, il potere perde una delle sue difese storiche, quella più sottile ma forse più efficace.

Il ritratto finale è impietoso proprio perché non è ideologico. John Elkann non viene attaccato frontalmente: viene ridimensionato. Da figura quasi mitologica del capitalismo europeo a manager sotto pressione, costretto a gestire contemporaneamente questioni giudiziarie, tensioni familiari, mercati nervosi, aziende in difficoltà, simboli sportivi in affanno e un sistema mediatico in fibrillazione. Un uomo che passa l’anno a difendersi, più che a guidare.

Il Financial Times fa così quello che in Italia spesso nessuno osa fare: tratta Elkann come un potente normale, giudicabile, fallibile, esposto. Ed è probabilmente questo l’aspetto più destabilizzante dell’articolo. Non la critica, ma la fine dell’aura.

Perché quando Londra scrive che è stato “l’anno da dimenticare”, il messaggio è netto: il mito Agnelli non basta più a spiegare il presente. Governare un’eredità così pesante, oggi, non è un esercizio di stile e John Elkann non ne è all'altezza.

Un uomo normale...

C’è una regola non scritta del capitalismo elegante: finché di te parla il Financial Times con rispetto, non hai problemi. Quando comincia a parlarti come di un caso, invece sì. E non serve nemmeno leggere l’articolo fino in fondo. Basta il titolo. John Elkann’s year to forget. Anno da dimenticare. Detto così, con quella sobrietà britannica che trasforma l’imbarazzo in stile.

Il Financial Times non è crudele. È peggio: è gentile. Non accusa, non ironizza, non deride. Racconta. E nel raccontare smonta, con pazienza da orologiaio svizzero, l’idea che John Elkann sia ancora quella figura sospesa sopra le parti, immune alle seccature che toccano agli altri. La grande scoperta del 2025, a quanto pare, è che anche gli eredi possono avere anni orribili.

Nel pezzo non c’è nulla che non si sapesse già. Famiglia che litiga, aziende che arrancano, simboli che non funzionano più come un tempo. Ferrari che non vince, Stellantis che ristruttura, la Juventus che difende la storia come si difendono i soprammobili di famiglia, i giornali che da scudo diventano grattacapo. Tutto noto. Tutto già letto. E allora perché fa notizia? Perché a scriverlo non è un cronista italiano con il vizio della polemica, ma la bibbia del capitalismo globale.

Il Financial Times non ha bisogno di dire che Elkann ha sbagliato. Gli basta suggerire che non sta andando bene. Che passa più tempo a contenere danni che a costruire futuro. Che governa un impero che non crolla, certo, ma nemmeno entusiasma. E nel mondo che conta, l’entusiasmo è più importante della stabilità.

La vera notizia, in fondo, non è l’anno brutto. È il tono. Perché quando Londra ti tratta come un manager qualunque che ha avuto dodici mesi complicati, vuol dire che il privilegio simbolico è evaporato. Non sei più il custode del mito. Sei il gestore di un portafoglio problematico.

E forse è questo che rende l’articolo così fastidioso. Non dice che John Elkann è finito. Dice qualcosa di molto più offensivo: che è normale. Con problemi normali, errori normali, un anno normale andato male. E per uno cresciuto dentro una leggenda, quella di Giovanni Agnelli, essere normale è la sconfitta più grande.

Perché un anno si può dimenticare. L’aura, molto meno.

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