Cerca

Esteri

Chi controlla le terre rare controlla il mondo: perché gli Stati Uniti sono costretti a trattare con Xi Jinping?

Dai magneti che fermano le fabbriche del Midwest alla tregua negoziata in Corea del Sud: nel 2025 la Cina usa materiali critici, licenze e tempi di consegna come leva geopolitica e obbliga Washington a rallentare lo scontro

Chi controlla le terre rare controlla il mondo: perché gli Stati Uniti sono costretti a trattare con Xi Jinping?

Xi Jinping

Una pressa si ferma nel capannone di una fabbrica del Midwest: mancano pochi grammi di magneti al samario-cobalto, indispensabili per completare un lotto di attuatori. Non è un guasto tecnico. È geopolitica applicata alla manifattura. Dall’altra parte del Pacifico, Pechino ha appena inasprito i controlli sulle esportazioni di terre rare, i metalli senza i quali non funzionano aerei, auto elettriche, missili e smartphone. Nel 2025 Xi Jinping ha dimostrato che il potere non passa solo da dazi o PIL (Prodotto interno lordo), ma dalla capacità di aprire o chiudere, al momento giusto, il flusso dei materiali critici. È anche in questo modo che il segretario generale del Partito comunista cinese si è imposto come il principale rivale strategico degli Stati Uniti, costringendo Donald Trump a tornare al tavolo dopo mesi di escalation, per una distensione fragile e reversibile.

Il 2025 ha segnato una nuova fase di una guerra commerciale che non si era mai davvero conclusa. La Casa Bianca, guidata da Donald Trump, ha rilanciato l’uso delle tariffe, spingendo i prelievi doganali su diversi beni cinesi a livelli inediti e muovendosi su più fronti per contenere l’ascesa tecnologica di Pechino. In parallelo, l’amministrazione statunitense ha mantenuto la pressione sul comparto dei semiconduttori, ipotizzando nuove tariffe sui chip, ma rinviandone l’entrata in vigore a giugno 2027. La minaccia è rimasta sospesa, trasformata in uno strumento negoziale di medio periodo.

 Xi Jinping

La risposta cinese è stata calibrata e simbolica. Dalla primavera 2025 sono entrati in vigore nuovi controlli e regimi di licenza su sette categorie di terre rare medie e pesanti, tra cui samario, gadolinio, terbio, disprosio, lutezio, scandioe il gruppo legato all’ittrio. Materiali fondamentali per elettronica, difesa e transizione energetica. Non un segnale generico, ma un intervento mirato sulle catene del valore occidentali, proprio nei punti considerati più sensibili da Washington.

Durante l’estate, tra tregue parziali e nuovi strappi, Pechino ha sospeso alcune misure non tariffarie contro aziende statunitensi, mantenendo però i freni sull’export dei metalli più delicati. A Washington, il dibattito oscillava tra la difesa del primato tecnologico e il rischio di ricadute sulla manifattura nazionale. Il messaggio cinese è stato chiaro: la dipendenza non è a senso unico.

Nel 2025 la vera novità della strategia cinese è stata l’uso del potere regolatorio interno come leva sui flussi globali. Controllare i permessi di esportazione significa decidere i tempi delle forniture e, di riflesso, i tempi della politica. A dicembre, il Ministero del Commercio della Repubblica Popolare Cinese ha introdotto licenze generali per snellire alcune spedizioni di terre rare, segnale di una possibile de-escalation misurata che lascia però a Pechino la cabina di regia. Un meccanismo flessibile, capace di irrigidirsi o allentarsi in base all’andamento dei negoziati con gli Stati Unitie alle pressioni europee.

Parallelamente, Washington ha formalizzato nuove accuse contro le pratiche industriali cinesi nel settore dei chip, dai sussidi ai trasferimenti forzati di tecnologia, fino a comportamenti ritenuti distorsivi della concorrenza. Allo stesso tempo ha scelto di rinviare l’impatto concreto delle tariffe, per non chiudere l’ultima finestra diplomatica dell’anno. Molte minacce, poche applicazioni immediate, conservando margine di manovra.

La stretta sulle terre rare ha creato il contesto per la mossa più politica dell’anno: l’incontro tra Donald Trump e Xi Jinping in Corea del Sud, il 30 ottobre 2025. Un vertice breve, meno di due ore, pochi scatti ufficiali, ma sufficiente a trasformare un confronto logorante in una tregua tattica. Nelle ore successive, il presidente statunitense ha parlato di un accordo “molto buono”, lasciando intendere una riduzione parziale dei dazi, inclusa la cosiddetta tassa sul fentanyl, e la sospensione per un anno dei controlli cinesi sulle terre rare, con possibilità di rinnovo. Un’intesa a tempo determinato, con benefici immediati per i mercati e margini di reversibilità per entrambe le parti.

Secondo i resoconti, le squadre economiche avevano già raggiunto una base di consenso durante le riunioni preparatorie in Malesia. La stretta di mano a Busan ha dato forma politica a una bozza già definita. La fotografia finale della giornata, con Xi Jinping diretto verso il vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e Donald Trumpdi ritorno a Washington, restituisce l’immagine di un equilibrio instabile, fatto di tregua senza illusioni sulla natura competitiva della relazione.

In un’analisi pubblicata il 24 dicembre 2025, Pierre Haski ha descritto con chiarezza la postura di Xi Jinping: leader di un paese che non è ancora una superpotenza completa, ma che ha individuato le vulnerabilità occidentali e sa come utilizzarle. La strategia di presentarsi come portavoce del Sud globale, dai vertici della Organizzazione per la cooperazione di Shanghai alle parate di settembre a Pechino, sostiene una narrazione in cui gli Stati Unitirappresentano il vecchio ordine imperiale e la Cina si propone come alternativa pragmatica per paesi spesso irritati dalla pressione tariffaria americana.

Questa impostazione si intreccia con dati interni meno solidi. Nel 2025, l’economia cinese, pur con surplus record sul fronte export, ha registrato consumi interni deboli e un aumento della disoccupazione in alcuni segmenti. I grandi investimenti in intelligenza artificiale, robotica, biotecnologie e semiconduttori rispondono all’obiettivo di autosufficienza tecnologica e di riduzione dell’esposizione a sanzioni e controlli occidentali. Il limite, ben noto ai pianificatori di Zhongnanhai, è il tempo necessario per riformare domanda interna e welfare produttivo. Nel frattempo, la leva delle catene di fornitura resta la più immediata.

Le terre rare sono un collante industriale più che una risorsa da esibire: se ne usano quantità ridotte, ma con un valore strategico elevatissimo. La scelta di Pechino di intervenire proprio su questo fronte ha creato problemi in settori diversi, dai componenti per la difesa all’automotive, con effetti rapidi sui tempi di produzione e sui costi. Gli analisti sottolineano che la domanda militare è relativamente contenuta rispetto a veicoli elettrici e robotica, ma la concentrazione del processing in Cina rende i colli di bottiglia difficili da aggirare nel breve periodo. È una valvola che può essere regolata, obbligando il resto del mondo ad adattarsi.

Da qui il valore politico dell’annuncio di dicembre sulle licenze generali e del cessate il fuoco negoziato a Busan: un anno per respirare, diversificare, accumulare scorte e riorientare gli approvvigionamenti. Un anno che, però, non basta a ricostruire una filiera che Pechino controlla dall’estrazione alla raffinazione, fino alla produzione di magneti.

Negli Stati Uniti, la linea resta ambivalente. Da un lato, la retorica dei dazi come strumento principale contro pratiche definite sleali, come sussidi e furti di proprietà intellettuale, e come argine all’afflusso di prodotti cinesi a basso costo. Dall’altro, la consapevolezza che tariffe estese colpiscono anche importatori e consumatori americani e possono rinviare investimenti. Il rinvio al 2027 delle tariffe sui chip traduce questo dilemma in una scelta operativa: mantenere pressione senza provocare nuove scosse in una supply chain già sotto stress per i controlli sugli AI chips e i divieti verso alcune aziende cinesi.

Dopo il vertice in Corea del Sud, Pechino ha continuato a contestare duramente gli annunci tariffari statunitensi, minacciando contromisure e chiarendo che la tregua sulle terre rare non risolve il contenzioso tecnologico. Le conferenze stampa del Ministero degli Esteri cinese hanno ripreso toni rigidi, confermando la natura strutturale del confronto.

Definire Xi Jinping come l’unico rivale sistemico degli Stati Uniti nel 2025 non è uno slogan, ma la sintesi di fatti concreti. La Cina dispone di una capacità di influenza sulle catene del valore critiche, dalle terre rare ai pannelli solari, fino a segmenti del 5G (quinta generazione delle telecomunicazioni mobili), del 6G e della robotica, che nessun altro attore non occidentale possiede. Ha un peso politico crescente nel Sud globale, sostenuto da finanza per lo sviluppo, commercio e diplomazia infrastrutturale, e accelera l’autosufficienza tecnologica in settori a uso civile e militare, accettando costi economici per obiettivi strategici. A questo si aggiunge un elemento meno visibile ma decisivo: la pazienza strategica. Xi Jinping può accettare una tregua di un anno se il bilancio complessivo resta favorevole in termini di accesso ai mercati e consolidamento industriale.

In questa dinamica, l’Europa si muove tra vincoli contrapposti. Come osserva Pierre Haski, i prodotti cinesi che non entrano negli Stati Uniti cercano sbocchi nell’Unione europea e nel Sud-Est asiatico, comprimendo i margini dei produttori locali e alimentando tensioni politiche interne. Bruxelles ha poche opzioni semplici: allinearsi a Washingtonespone a ritorsioni, perseguire una vera autonomia strategica sconta limiti di scala e frammentazione decisionale. Anche per l’UE, le terre rare sono un banco di prova: la diversificazione è lenta e costosa e, tra 2026 e 2027, non esistono alternative pronte a sostituire l’ecosistema cinese nella raffinazione e nella produzione magnetica.

Il vertice di Busan non ha affrontato i nodi più sensibili. Taiwan non è stata oggetto di discussioni sostanziali; sull’Ucraina si è registrata solo la disponibilità a proseguire il dialogo. La cooperazione sul fentanyl, legata alla riduzione di alcuni dazi, ha offerto a Washington una sponda comunicativa senza modificare la natura del confronto sistemico. La distensione resta funzionale, pensata per sterilizzare la crisi delle terre rare ed evitare nuove turbolenze finanziarie, non per riscrivere gli equilibri strategici nell’Indo-Pacifico.

Guardando al 2026, gli scenari restano aperti. Una distensione tattica potrebbe essere prorogata, con il rinnovo della tregua sulle terre rare e il mantenimento delle tariffe sui chip in sospeso fino al 2027. Una ricaduta selettiva resta possibile in caso di nuove sanzioni mirate o indagini commerciali, con effetti immediati su prezzi e produzione. Più strutturale è l’ipotesi di una biforcazione delle catene di fornitura, con una filiera occidentale e una centrata sulla Cina, e paesi terzi chiamati a scegliere segmento per segmento. È lo scenario più costoso, ma coerente con la logica di de-risking dichiarata in Occidente e di autosufficienza perseguita da Pechino.

In tutti i casi, il dato di fondo non cambia. Xi Jinping non ha bisogno di una vittoria spettacolare per consolidare il proprio ruolo di rivale sistemico. Gli basta dimostrare, come nel 2025, di poter modulare il flusso dei materiali critici e, così facendo, influenzare il ritmo della politica negli Stati Uniti e tra gli alleati. La competizione è una prova di resilienza, non una gara di slogan. La pressa ferma nel capannone del Midwest non è solo un problema industriale: è il metronomo di una geopolitica che passa, sempre più spesso, dai materiali invisibili.

Fonti: Ministero del Commercio della Repubblica Popolare Cinese; Casa Bianca; Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese; APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation); analisi di Pierre Haski; resoconti stampa internazionali Washington Post, Financial Times, Reuters.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori