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23 Dicembre 2025 - 23:00
Protesta Postalcoop davanti a Poste Italiane: lavoratori senza reddito e filiera nel caos
La lettera arriva in redazione senza titoli altisonanti e senza retorica. È firmata dagli R.S.A. Andrea Pistillo e Roberto Di Cesare e parla di una situazione precisa: 36 lavoratori dell’ex Postalcoop sono senza stipendio da oltre tre mesi. Non è un comunicato di circostanza. È una denuncia scritta con parole nette – delusione, rabbia, vergogna – e con una frase che pesa più di tutte: «Non siamo stati la priorità di nessuno».
A pochi giorni dal Natale, quella lettera non chiede visibilità. Chiede risposte. Racconta una vicenda che invece di sbloccarsi peggiora: dopo la messa in amministrazione giudiziaria e l’avvio della liquidazione, gli stipendi non sono mai arrivati. A questo si aggiunge un fatto ancora più grave: la cassa integrazione, approvata dal Ministero da oltre un mese, non è stata erogata. Perché, nessuno lo spiega. I solleciti inviati alle istituzioni – Ministero, Regione Piemonte, amministrazione giudiziaria, sindacati, consulenti del lavoro, curatore fallimentare – sono rimasti senza esito.
È qui che la lettera smette di essere solo una denuncia sindacale e diventa una questione politica. Perché quando una vertenza resta ferma per mesi, quando un ammortizzatore sociale approvato non arriva, qualcuno deve assumersi la responsabilità di spiegare cosa sta accadendo. E in Piemonte quella responsabilità chiama direttamente in causa l’assessora regionale al Lavoro Elena Chiorino.
La Regione Piemonte, infatti, non è un soggetto neutro in questa storia. Ha competenze precise sulle politiche attive, sugli ammortizzatori, sui tavoli di crisi. E oggi, di fronte a 36 famiglie senza reddito da oltre tre mesi, la domanda è semplice e non più rinviabile: che cosa sta facendo l’assessorato al Lavoro per sbloccare la situazione? Quali interlocuzioni sono in corso con il Ministero? Quali tempi vengono garantiti ai lavoratori? E soprattutto: chi si assume la responsabilità di dire loro quando potranno tornare ad avere un reddito?
Quando Andrea Pistillo e Roberto Di Cesare scrivono «Non siamo stati la priorità di nessuno», non stanno usando una formula emotiva. Stanno fotografando un vuoto. Un vuoto di risposte, di tempi certi, di assunzione di responsabilità. Un vuoto che pesa ancora di più se si guarda a quanto è già accaduto nei mesi scorsi.
La vicenda dell’ex Postalcoop è nota. L’inchiesta Epicentro, l’amministrazione giudiziaria, i sequestri, il sistema dei subappalti, la filiera Nexive–Poste che continua a funzionare altrove mentre chi lavorava resta fermo. Tutto questo è stato raccontato e documentato. Ma oggi il punto non è più l’inchiesta. È ciò che succede dopo. Perché un’indagine, per quanto necessaria, non può trasformarsi in una sospensione indefinita della vita di chi lavora.
Tre mesi senza stipendio.
Una cassa integrazione sulla carta.
Solleciti senza risposta.
E ora le festività, con il rischio concreto che tutto si blocchi di nuovo per le chiusure natalizie.
La lettera lo dice chiaramente: «Come possiamo continuare ad attendere, a fronteggiare spese, bollette, affitti, mutui e bisogni primari, senza alcun reddito?». È una domanda che non riguarda solo i lavoratori. Riguarda chi governa le politiche del lavoro sul territorio. Riguarda l’assessora Elena Chiorino, chiamata ora a spiegare se e come la Regione intenda intervenire.
Questa non è una richiesta di solidarietà. È una richiesta di tempi certi, di atti concreti, di risposte pubbliche. Perché la legalità non può fermarsi al sequestro di un’azienda. Deve arrivare fino alla tutela delle persone coinvolte. Altrimenti diventa un’altra forma di ingiustizia.
E una cosa, questa lettera, la dice senza giri di parole: 36 famiglie non possono restare ostaggio del silenzio istituzionale. Ora la palla è nelle mani di chi ha il compito di occuparsi di lavoro. E di dare risposte.







L’inchiesta Epicentro è una delle operazioni più vaste che la Procura di Torino abbia messo in campo negli ultimi anni nel settore della logistica. Nasce in silenzio, dopo mesi di controlli, di accertamenti fiscali, di segnalazioni da parte dei sindacati e di lavoratori che parlano di buste paga in ritardo, aziende che aprono e chiudono all’improvviso, assunzioni fatte da un giorno all’altro e revocate con la stessa rapidità. A settembre, quando la Guardia di Finanza entra negli uffici delle società coinvolte, la macchina è già pronta a scattare.
Secondo gli investigatori, al centro del sistema ci sarebbero due società: Postalcoop, con sede a Ciriè, e CargoBroker, attive nel settore della logistica e degli appalti per la consegna dei pacchi. Attorno a loro, una costellazione di aziende più piccole: cooperative, società a responsabilità limitata, imprese di breve durata. Tutte collegate fra loro da rapporti commerciali e amministrativi che, secondo la Procura, avevano un unico scopo: abbattere i costi del lavoro ed eludere contributi, tasse e obblighi contrattuali.
Il meccanismo — spiegano gli inquirenti — era semplice nella logica e complesso nell’esecuzione. Le società “principali” ricevevano commesse importanti. Poi una parte di quel lavoro veniva trasferita a società “filtro”, che lo rifatturavano. Infine, la manodopera veniva affidata a una serie di cooperative e ditte “serbatoio”, formalmente incaricate delle assunzioni, ma spesso prive di mezzi, strutture e capitali. Queste ultime accumulavano debiti, non versavano contributi, non pagavano l’IVA dovuta e, una volta diventate ingestibili, sparivano. Venivano sostituite da altre, nuove di zecca, pronte a ripetere lo stesso schema.
Secondo la Guardia di Finanza si trattava di un sistema “reiterato e collaudato”, messo in piedi per ridurre i costi del lavoro e garantire prezzi competitivi nei confronti dei grandi committenti della logistica. Un sistema che, secondo gli atti, avrebbe coinvolto oltre 2.000 lavoratori tra il 2018 e il 2023. E le cifre sequestrate danno l’idea della portata: il giudice ha disposto un sequestro preventivo da 26,5 milioni di euro, mentre l’ammontare delle fatture ritenute sospette supera i 100 milioni.
Le accuse ipotizzate sono pesanti: associazione per delinquere, emissione di fatture per operazioni inesistenti, dichiarazioni fiscali fraudolente, omesso versamento dell’IVA, intermediazione illecita di manodopera. Accuse che non riguardano solo la contabilità, ma anche le condizioni di chi, quei pacchi, li consegnava ogni giorno.
Dalle verifiche, infatti, emergono testimonianze e documenti che descrivono un quadro tutt’altro che regolare: lavoratori che passavano da una società all’altra senza alcuna spiegazione, contratti che cambiavano ogni pochi mesi, straordinari non riconosciuti, stipendi versati a singhiozzo, turni lunghi e spesso non rispettosi delle norme. Per la Procura, si trattava di una gestione che metteva al centro l’abbattimento dei costi, lasciando ai margini i diritti di chi lavorava.
Il 10 settembre l’operazione diventa pubblica. La Guardia di Finanza sequestra mezzi, conti correnti, immobili e documenti. La Postalcoop viene messa in amministrazione giudiziaria: un commissario nominato dal tribunale prende in mano l’azienda e tenta di ricostruire la contabilità, verificare i contratti, capire cosa sia realmente sostenibile e cosa no. È un lavoro enorme: anni di fatture, società collegate, passaggi di personale, conti da ricostruire. Nel frattempo, molte attività si bloccano.
L’inchiesta mette anche in luce un altro elemento: la fragilità del sistema degli appalti nel settore della logistica. Una filiera lunga, fatta di contratti al ribasso, esternalizzazioni, subappalti a cascata e cooperative che vengono aperte e chiuse con estrema facilità. Quando una di queste cade, l’intera struttura trema. E il terreno — come si vede nell’operazione Epicentro — ha ceduto.
La Procura sottolinea che il rischio di reiterazione del sistema era “concreto e attuale”, e che solo un intervento drastico poteva interrompere un ciclo che produceva risparmi illeciti per le società coinvolte e debiti enormi verso lo Stato. Il sequestro, dunque, è arrivato come misura necessaria per arginare quello che gli investigatori ritenevano un fenomeno in continua evoluzione.
L’inchiesta ora continua. Ci sono documenti da analizzare, responsabilità da individuare, ulteriori flussi finanziari da seguire. Non è escluso che l’indagine possa ampliarsi ad altri soggetti o a nuove società collegate. I magistrati stanno approfondendo anche il ruolo dei committenti e la struttura degli appalti, per capire se le condizioni contestate trovassero terreno fertile proprio in un sistema che, da anni, viene indicato come uno dei più problematici del panorama industriale italiano.
Quel che è certo è che Epicentro ha aperto una crepa profonda. Ha mostrato che dietro la rapidità delle consegne, dietro il ritmo incessante dell’e-commerce, dietro la corsa dei pacchi che arrivano in poche ore, esiste un mondo fatto di cooperative che falliscono, di contratti fragili e di imprese che reggono interi settori con equilibri sottilissimi.
Il quadro definitivo emergerà nei prossimi mesi, ma un punto appare già chiaro: questa inchiesta segna uno spartiacque. Per la logistica piemontese, per il sistema degli appalti e per chi, ogni giorno, garantisce la consegna di migliaia di pacchi che muovono l’economia. È una fotografia nitida di ciò che succede quando la catena degli appalti si spezza e lascia dietro di sé conti da ricostruire, aziende commissariate e — soprattutto — un sistema da ripensare.
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