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Venezuela, petroliere sequestrate e investitori pronti: gli Stati Uniti stanno usando la forza per prendersi il petrolio?

Droni, elicotteri, sanzioni e promesse di profitti: mentre Washington blocca il greggio in mare, l’opposizione venezuelana offre ai mercati l’apertura totale dell’energia. Una strategia che intreccia sicurezza, finanza e diritto internazionale

Venezuela, petroliere sequestrate e investitori pronti: gli Stati Uniti stanno usando la forza per prendersi il petrolio?

Donald Trump

Una scena che richiama un’operazione militare ad alta intensità: due elicotteri si avvicinano a una petroliera in navigazione nei Caraibi, corde calate sul ponte, uomini armati che salgono a bordo e prendono il controllo del carico. È l’11 dicembre 2025 quando gli Stati Uniti d’America annunciano il sequestro di una nave sospettata di trasportare greggio venezuelano verso Cuba e Asia. Pochi giorni dopo segue un’altra operazione, sempre in mare, questa volta giustificata con la definizione di stateless vessel, cioè nave priva di bandiera. Sullo sfondo c’è Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, che promette di “bloccare tutte le petroliere sanzionate in entrata e in uscita dal Venezuela” e che valuta apertamente se “tenere o vendere” il petrolio sequestrato. Nello stesso periodo, al Kaseya Center di Miami, la leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado, collegata in video, presenta a investitori e analisti quella che definisce “un’opportunità da 1.700 miliardi di dollari”: l’apertura completa del settore energetico venezuelano al capitale privato internazionale. Due linee d’azione che procedono in parallelo, una militare e una economico-finanziaria, unite da un obiettivo comune: il controllo delle maggiori riserve petrolifere accertate al mondo.

maduro

Maduro

Nel giro di poche settimane la strategia della Casa Bianca mostra un’accelerazione evidente. Da un lato si moltiplicano i messaggi rivolti ai mercati e agli investitori, dall’altro aumentano le operazioni navali nei Caraibi e nel Pacifico. María Corina Machado, dialogando con imprenditori e decisori politici statunitensi, promette di smantellare il monopolio della compagnia statale PDVSA (Petróleos de Venezuela S.A.) e di aprire l’intera filiera, dall’estrazione alla raffinazione, a contratti competitivi e a un quadro normativo favorevole al mercato. Parallelamente, la marina e le agenzie federali statunitensi intensificano intercettazioni, sequestri e pattugliamenti, ufficialmente nel quadro della lotta al narcotraffico. Le due leve si rafforzano a vicenda: l’ipotesi di un cambio di scenario politico a Caracas ha già spinto al rialzo i prezzi dei titoli di Stato venezuelani e delle obbligazioni PDVSA, mentre le operazioni in mare segnalano la volontà di Washington di ridurre le entrate del governo di Nicolás Maduro.

Nel suo tour virtuale tra Miami e New York, Machado illustra un piano di ricostruzione economica immediata fondato su tutela della proprietà privata, certezza del diritto e ingresso massiccio di capitali esteri in energia, miniere, agricoltura e infrastrutture. Per il settore energetico, la proposta prevede l’apertura di giacimenti petroliferi e gasiferi, oleodotti, raffinerie e segmenti intermedi e finali della filiera a joint venture e gare internazionali, con una drastica riduzione del perimetro di PDVSA. L’obiettivo dichiarato è riportare la produzione sopra i tre milioni di barili al giorno nel medio periodo. Una linea già anticipata in una bozza di riforma della Hydrocarbons Law, presentata nei mesi scorsi anche alla conferenza CERAWeek di Houston.

Sul piano politico, questa proposta economica si accompagna a un’intensa attività diplomatica verso l’amministrazione Trump. Secondo ricostruzioni di Reuters, emissari di Machado hanno incontrato funzionari del National Security Council (Consiglio di Sicurezza Nazionale) per presentare il Venezuela come una minaccia alla sicurezza nazionale statunitense, citando narcotraffico, estrazione illegale di oro e reti criminali. Una lettura contestata da diversi esperti, ma che ha contribuito a giustificare un rafforzamento delle sanzioni e della presenza militare. Per l’opposizione venezuelana, questa pressione serve anche a mantenere l’attenzione e l’interesse del capitale internazionale.

Nel discorso pubblico di Donald Trump, il petrolio non è soltanto una merce, ma uno strumento strategico. Già nel 2016 lo slogan “take the oil” era ricorrente, e nel 2023 l’allora presidente aveva ipotizzato apertamente l’idea di assumere il controllo delle risorse venezuelane in caso di cambio di governo. Nel 2025 questa impostazione riemerge con la minaccia di bloccare le petroliere sanzionate e con il sequestro di carichi destinati a Cuba e Cina, in una strategia che mira anche a contenere l’influenza di Pechino nell’emisfero occidentale. Secondo molte fonti, la CIA (Central Intelligence Agency) avrebbe ricevuto il via libera a operazioni coperte in Venezuela, mentre Washington valuta la possibilità di trattenere legalmente il greggio sequestrato.

Il nodo più delicato resta quello della legalità internazionale. Human Rights Watch riferisce che fino a metà dicembre sono stati documentati 26 attacchi con almeno 95 morti, qualificati come esecuzioni extragiudiziali perché avvenuti fuori da un conflitto armato e senza prova di una minaccia imminente. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha definito questi strike inaccettabili e contrari al diritto internazionale, ricordando che l’uso della forza letale è ammesso solo come ultima risorsa per fermare un pericolo immediato. Giuristi di diritto internazionale sottolineano inoltre che l’invocazione dell’autodifesa non soddisfa i requisiti dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, e che definire cartelli o gang come organizzazioni terroristiche non basta a far scattare il diritto bellico.

L’amministrazione Trump sostiene che le operazioni rientrino nel quadro del law enforcement internazionale e del contrasto al narcotraffico, evocando in alcuni casi la nozione di conflitto armato non internazionale contro reti criminali transnazionali. Ma la distinzione tra azione di polizia e operazione militare resta centrale: in assenza di guerra valgono criteri stringenti di necessità, proporzionalità e rispetto del giusto processo. Su questo terreno si gioca un possibile contenzioso giuridico e politico che potrebbe coinvolgere tribunali federali e organismi multilaterali. A fine dicembre, i media contano oltre cento vittime complessive negli attacchi contro presunte low-profile vessels nei Caraibi e nel Pacifico orientale.

Il sequestro delle petroliere ha acceso ulteriormente il confronto. Il ministero degli esteri di Cuba ha definito l’intercettazione della nave Skipper un atto di pirateria e terrorismo marittimo. Panamá ha segnalato che un’altra nave fermata avrebbe violato le norme sulla trasparenza della navigazione, con il transponder spento. Donald Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti potrebbero trattenere o vendere il greggio sequestrato, mentre la stampa finanziaria parla dell’intercettazione di una terza petroliera. Washington giustifica queste azioni con l’applicazione delle sanzioni e con presunti legami con reti iraniane come i Guardiani della Rivoluzione, un ambito in cui esistono precedenti, ma la solidità giuridica di tali operazioni resta oggetto di dibattito.

Per Caracas, il petrolio resta la principale fonte di entrate e il legame economico con Cina è fondamentale. Secondo diverse analisi, circa l’80 per cento dell’export venezuelano finisce sul mercato cinese, consentendo al Paese di aggirare in parte le sanzioni. Colpire le navi e le rotte significa tentare di interrompere questo circuito, spaventando acquirenti e assicuratori e riducendo l’uso della cosiddetta shadow fleet. Gli esperti avvertono però che un’escalation marittima aumenta il rischio di incidenti con il coinvolgimento di Paesi terzi e di una destabilizzazione regionale più ampia.

Le promesse di Machado, sintetizzate nello slogan secondo cui le aziende americane “faranno molti soldi”, trovano ascolto a Wall Street e tra i fondi specializzati in debito in difficoltà. Nelle ultime settimane i titoli sovrani venezuelani hanno toccato i 33 centesimi per dollaro e le obbligazioni PDVSA sono risalite, alimentate dalla scommessa su una futura ristrutturazione e su un rientro graduale nei mercati. Banche d’investimento e centri studi parlano apertamente di “opportunità Venezuela”, legandola anche al contenzioso su Citgo, considerato decisivo per il futuro assetto patrimoniale del Paese.

Definire correttamente la natura delle operazioni statunitensi è centrale. Se si tratta di law enforcement internazionale, devono valere pienamente gli standard dei diritti umani. Se invece si parla di conflitto armato non internazionale contro narco-terroristi, occorrerebbe dimostrare un livello di violenza organizzata che molti esperti non riconoscono nelle operazioni in mare aperto. La retorica della guerra ai cartelli, osservano giuristi e organizzazioni non governative, rischia di normalizzare risposte militari a problemi criminali, mettendo in discussione la credibilità dello stato di diritto statunitense.

La crisi venezuelana coinvolge direttamente anche l’Europa. Una parte rilevante della droga che transita dal Venezuela è destinata al continente europeo, le raffinerie europee sono potenziali acquirenti di greggi pesanti e diverse aziende possiedono competenze chiave sull’heavy oil e sulle tecniche di Enhanced Oil Recovery (recupero avanzato del petrolio). Un ulteriore irrigidimento della linea statunitense, con nuove sanzioni secondarie, costringerebbe le imprese europee a scelte difficili tra opportunità industriali e rischi di conformità. Per l’Italia, tradizionalmente attenta ai dossier energetici e migratori, la stabilità dei Caraibi rappresenta un interesse strategico che passa anche dal mantenimento di canali diplomatici aperti.

Un dato citato da Human Rights Watch resta emblematico: nessuna delle persone uccise negli attacchi è stata identificata ufficialmente dalle autorità statunitensi. Nazioni Unite e Amnesty International parlano di uccisioni arbitrarie e chiedono un intervento del Congresso degli Stati Uniti per esercitare il controllo costituzionale sull’uso della forza. L’assenza di prove pubbliche di una minaccia imminente solleva interrogativi sulla legittimità di un’operazione che rischia di compromettere la credibilità internazionale di Washington.

Nel frattempo Nicolás Maduro, che nega legami strutturali con reti criminali, alterna aperture selettive agli investimenti esteri a una linea di netta opposizione alle pressioni statunitensi. Secondo alcune ricostruzioni, emissari di Caracas avrebbero esplorato un’intesa pragmatica con Washington per ridurre il peso di Cina e Russia, scontrandosi però con una profonda diffidenza politica. La posizione ufficiale del governo venezuelano resta quella di denunciare le azioni statunitensi come pirateria e violazione del diritto internazionale.

Il Venezuela è tornato così al centro di una competizione strategica che combina forza militare e attrazione finanziaria. L’amministrazione Trump punta a colpire oggi i flussi e a promettere profitti domani, mentre Maduro cerca sostegno in Pechino e in reti economiche alternative. In mezzo resta una società provata e un apparato produttivo che avrebbe bisogno di stabilità giuridica e investimenti di lungo periodo. La questione di fondo rimane aperta: è possibile costruire un nuovo ordine energetico basandosi su sequestri, raid e interpretazioni estensive del diritto internazionale? Il petrolio può aprire molte porte, ma senza legittimità rischiano di richiudersi rapidamente.

Fonti: Reuters, Human Rights Watch, Amnesty International, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, L’Internazionale, Carta delle Nazioni Unite, dichiarazioni ufficiali della Casa Bianca, dichiarazioni del ministero degli esteri di Cuba.

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