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23 Dicembre 2025 - 09:37
Le città non sono mai neutre. Lo sono ancora meno le tecnologie che le disegnano, le governano, le raccontano. È da questa consapevolezza che prende forma una nuova idea di urbanistica: partecipata, digitale, sensibile alle differenze di genere. Un approccio che non si limita a introdurre strumenti innovativi, ma mette in discussione il modo stesso in cui lo spazio urbano viene pensato, vissuto e amministrato.
A raccontarlo, nella recente puntata di DigitalWorld su Rai Scuola dedicata alle Identità Digitali, è stata Monica Cerutti, ricercatrice del Dipartimento di Informatica dell’Università degli Studi di Torino ed esperta di innovazione sociale, da anni impegnata sul terreno delle tecnologie civiche digitali e della partecipazione.

Al centro del suo intervento, una piattaforma che è insieme strumento tecnologico e atto politico: FirstLife, sviluppata dal gruppo di ricerca 'Territori e Comunità Digitali', è una piattaforma civica che trasforma il digitale in uno spazio di partecipazione reale. Attraverso la condivisione di storie, eventi e beni comuni, consente alle comunità di rendere visibili bisogni, pratiche quotidiane e vissuti che spesso restano ai margini dei processi decisionali, rafforzando al tempo stesso il dialogo con le realtà del territorio. Un hub digitale personalizzabile, pensato per consolidare l’identità dei gruppi e delle reti che lo abitano e per incidere concretamente sui processi di pianificazione urbana.
"L’identità digitale può diventare voce, presenza, scelta", ha spiegato Cerutti. Una definizione che sposta radicalmente il significato dell’identità online: non più soltanto SPID, account o tracciabilità, ma possibilità concreta di partecipare, di incidere, di essere riconosciuti nello spazio pubblico, anche quando questo spazio è mediato dalla tecnologia.
Le città, osserva Cerutti, sono ancora oggi progettate sulla base di modelli che privilegiano alcuni corpi, alcuni tempi, alcune esigenze. Ma la vita urbana reale è fatta di mobilità frammentata, di lavoro di cura, di sicurezza percepita, di accessibilità, di prossimità. Dimensioni che emergono solo quando si ascoltano davvero le persone e si dà loro la possibilità di raccontare il territorio a partire dall’esperienza quotidiana.
È qui che entra in gioco FirstLife, piattaforma civica non commerciale che unisce social networking e mappatura collaborativa. Attraverso segnalazioni geolocalizzate, gli utenti possono raccontare il proprio territorio: luoghi sicuri e insicuri, spazi inclusivi o escludenti, servizi mancanti, considerazioni pratiche, buone pratiche. Un dispositivo che trasforma il racconto individuale in conoscenza condivisa e potenzialmente utilizzabile anche dalle istituzioni.
Uno strumento che rende visibile ciò che spesso resta invisibile e che consente di leggere la città non come un insieme astratto di funzioni, ma come un intreccio di esperienze vissute. È questo il cuore dell’urbanistica partecipata di genere: non un approccio ideologico, ma un metodo fondato sull’ascolto sistematico dei bisogni differenziati.
L’esperienza di FirstLife è stata presentata anche all’Internet Festival di Pisa, nell’ambito del progetto Stem Up, finanziato dal Fondo per la Repubblica Digitale. Un progetto che intreccia competenze STEM, partecipazione civica e inclusione di genere, con un’attenzione particolare alle giovani generazioni e, in particolare, alle ragazze.
La scelta di Rai Scuola di dedicare spazio a questi temi segnala un’esigenza sempre più urgente: formare cittadini digitali consapevoli, capaci di usare le tecnologie non solo per consumare contenuti, ma per incidere sul mondo reale, sui territori e sulle politiche che li attraversano.
Ma cosa significa, concretamente, ripensare l’identità digitale come infrastruttura civica, capace di abilitare partecipazione e corresponsabilità? In che modo i bias culturali e di genere entrano – spesso in modo invisibile – nei processi di progettazione tecnologica e urbana, contribuendo a disegnare città che funzionano meglio per alcuni e peggio per altri? E come può una piattaforma digitale trasformare il vissuto quotidiano, fatto di pratiche, percezioni e bisogni, in conoscenza utile per la pianificazione e per le politiche pubbliche?
Ripensare le città, oggi, significa inevitabilmente ripensare il potere: chi decide, su quali dati, a partire da quali esperienze. E farlo attraverso le identità digitali non è solo una scelta tecnologica, ma un passaggio politico e culturale, che può aprire la strada a spazi urbani più giusti, inclusivi e umani.
Per approfondire questi temi, abbiamo intervistato Monica Cerutti.

Affermi che l’identità digitale può diventare "voce, presenza, scelta". In che modo questa visione supera l’idea tradizionale di identità online legata solo a profili e autenticazione?
"Questa visione supera l’idea tradizionale di identità online perché sposta il baricentro dall’essere riconosciuti all’essere rilevanti. Nel lavoro che stiamo portando avanti sulle tecnologie civiche digitali nel gruppo di ricerca Territori e comunità digitali del Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino, l’identità digitale non è pensata come un semplice insieme di credenziali, profili o meccanismi di autenticazione. Quella è solo la soglia tecnica di accesso. Quando parlo di identità digitale come voce, presenza e scelta, intendo qualcosa di più profondo: voce, perché l’identità digitale diventa la possibilità concreta di esprimersi, contribuire, incidere nei processi decisionali che riguardano i territori e le comunità. Non solo "esserci", ma poter dire qualcosa che conta; presenza, perché non è episodica o decorativa: è continuità, riconoscimento reciproco, costruzione di relazioni e fiducia all’interno di spazi digitali che hanno effetti nel mondo reale; scelta, perché l’identità non è data una volta per tutte né imposta dalle piattaforme. È la capacità di decidere come partecipare, quando, con quali dati, con quali responsabilità e con quali diritti. In questo senso, l’identità digitale smette di essere una maschera funzionale ai sistemi e diventa un’infrastruttura civica, che abilita partecipazione, inclusione e corresponsabilità. Non serve solo a dire "sono io", ma a rendere possibile dire "io partecipo", "io contribuisco", "io decido insieme agli altri". È qui che le tecnologie civiche mostrano il loro potenziale trasformativo: quando l’identità digitale non riduce le persone a utenti, ma le riconosce come soggetti attivi di una comunità democratica, anche nello spazio digitale".
Sostieni che le tecnologie non sono mai neutre. In che modo i blas culturali e di genere influenzano la progettazione degli strumenti digitali e, di conseguenza, delle città?
"Dire che le tecnologie non sono mai neutre significa riconoscere che ogni scelta progettuale riflette valori, priorità e visioni del mondo. I bias culturali e di genere entrano negli strumenti digitali a partire dai dati, spesso costruiti su esperienze considerate “standard” e che invece escludono molte soggettività. Questi bias influenzano ciò che viene misurato e ottimizzato, come l’efficienza urbana, la mobilità o la sicurezza, privilegiando modelli di vita maschili, lineari e a tempo pieno, e rendendo invisibili il lavoro di cura, i percorsi complessi e le esigenze di gruppi diversi. Poiché le tecnologie digitali orientano decisioni e politiche urbane, il risultato sono città che funzionano meglio per alcuni e peggio per altri. Per questo è fondamentale intervenire a monte della progettazione, rendendo visibili i bias e coinvolgendo prospettive plurali, affinché il digitale diventi uno strumento di inclusione e non di riproduzione delle disuguaglianze".
Che cosa si intende concretamente per urbanistica di genere e perché è ancora poco applicata nei processi di pianificazione urbana tradizionali?
"Per urbanistica di genere si intende un approccio alla pianificazione urbana che riconosce che donne e uomini, e più in generale persone con ruoli, corpi e tempi di vita diversi, vivono e attraversano la città in modo differente. Concretamente significa progettare spazi, servizi e infrastrutture partendo dalle pratiche quotidiane reali: la mobilità legata al lavoro di cura, l’uso dei servizi di prossimità, la sicurezza percepita, l’accessibilità degli spazi pubblici lungo l’arco della giornata.Non si tratta di "aggiungere" una prospettiva femminile, ma di mettere in discussione il modello urbano neutro, che in realtà è costruito su un soggetto implicito: adulto, maschio, autosufficiente, con percorsi casa-lavoro lineari e tempo pienamente disponibile. È ancora poco applicata perché i processi di pianificazione urbana tradizionali sono fortemente settoriali, tecnici e basati su indicatori che faticano a cogliere la complessità della vita quotidiana. Inoltre, richiede un cambiamento culturale e politico: riconoscere il valore del lavoro di cura, adottare dati disaggregati, coinvolgere attivamente soggetti spesso esclusi dai processi decisionali. In questo senso, l’urbanistica di genere non è una specializzazione di nicchia, ma una chiave per progettare città più eque, inclusive e funzionali per tutte e tutti".
Quali bisogni emergono più chiaramente quando si dà spazio alla partecipazione di donne, caregiver e soggetti spesso esclusi dai processi decisionali?
"Quando si dà spazio reale alla partecipazione di donne, caregiver e soggetti spesso esclusi dai processi decisionali, emergono bisogni che nei modelli tradizionali restano ai margini perché difficili da standardizzare, ma fondamentali per la qualità della vita urbana. Emergono innanzitutto bisogni legati al tempo: orari dei servizi compatibili con il lavoro di cura, continuità tra scuola, sanità, trasporti e welfare, possibilità di muoversi senza dover “ottimizzare” ogni spostamento. La città viene letta non come somma di funzioni, ma come intreccio di ritmi quotidiani. Diventano centrali la prossimità e l’accessibilità: servizi raggiungibili a piedi o con trasporti affidabili, spazi pubblici sicuri e accoglienti in diverse fasce orarie, infrastrutture pensate per corpi e mobilità differenti, non solo per l’utente standard. Si rendono visibili anche bisogni relazionali e di cura: luoghi di socialità non commerciali, spazi per l’infanzia, per le persone anziane e per chi presta assistenza, reti di supporto formali e informali che tengano insieme dimensione digitale e presenza fisica. Infine, emerge un bisogno spesso trascurato: essere riconosciuti come soggetti competenti. La partecipazione non è solo consultazione, ma richiesta di incidere, di vedere le proprie esperienze tradotte in scelte progettuali e politiche. In sintesi, quando queste voci entrano nei processi decisionali, la città smette di essere progettata per un abitante astratto e comincia a rispondere alla complessità reale delle vite che la abitano".
Che cosa distingue FirstLife da un social network tradizionale e perché la dimensione della mappa è centrale nel trasformare il vissuto in conoscenza urbana?
“FirstLife si distingue da un social network tradizionale perché non mette al centro il profilo, ma il luogo. Nei social classici l’esperienza è organizzata intorno all’identità individuale, ai contenuti e alle relazioni. In FirstLife, invece, il punto di partenza è lo spazio urbano e ciò che accade in esso: le pratiche quotidiane, i bisogni, le risorse, le criticità. La mappa è centrale perché trasforma il vissuto individuale in conoscenza urbana condivisa. Geolocalizzare esperienze, segnalazioni e iniziative significa renderle leggibili nello spazio, far emergere pattern, concentrazioni, vuoti e disuguaglianze che altrimenti resterebbero frammenti isolati di racconto. Il vissuto non è più solo testimonianza, ma diventa dato situato, interpretabile e discutibile collettivamente. In questo modo FirstLife non serve tanto a "esprimersi", quanto a costruire consapevolezza sul territorio. La dimensione spaziale permette di collegare storie personali e politiche urbane, esperienze quotidiane e processi decisionali, aprendo la strada a una partecipazione che non è astratta, ma radicata nei luoghi in cui le persone vivono. È qui che avviene il passaggio chiave: dalla narrazione individuale alla conoscenza civica, dal racconto al possibile cambiamento urbano".
Puoi raccontarci un esempio concreto in cui una segnalazione o una mappatura su FirstLife ha contribuito a orientare politiche o riflessioni sul territorio?
"Un esempio concreto è quello del Comune di Castenaso, in provincia di Bologna, dove FirstLife è stata utilizzata all’interno di un processo partecipativo strutturato di crowdmapping femminile per leggere la città in ottica di genere. Attraverso laboratori, questionari e attività con cittadinanza, scuole e pubblica amministrazione, è stata costruita una mappa interattiva dei luoghi delle donne, che non si limita a censire servizi esistenti, ma rende visibili pratiche quotidiane, percezioni di sicurezza, spazi di cura, luoghi del desiderio e proposte per il futuro. La mappa ha permesso di far emergere bisogni spesso assenti nei canali tradizionali, traducendo esperienze soggettive in dati spazializzati e leggibili collettivamente. Questo lavoro ha avuto ricadute concrete: la mappa è stata riconosciuta dall’amministrazione come strumento di monitoraggio del territorio, integrabile nei processi decisionali e utilizzabile come base conoscitiva per il Piano Urbanistico Generale e per interventi sullo spazio pubblico. In parallelo, una mappatura dedicata alla percezione dell’insicurezza, non resa pubblica per evitare stigmatizzazioni, è stata consegnata al Comune per orientare azioni mirate su illuminazione, animazione degli spazi e politiche di prossimità. In questo senso, FirstLife non ha prodotto una singola decisione, ma ha inciso sul modo in cui il territorio viene letto: ha trasformato il vissuto in conoscenza urbana, rendendo la partecipazione un elemento strutturale e continuativo della pianificazione".
In che modo il progetto Stem Up, finanziato dal Fondo per la Repubblica Digitale, contribuisce a ridurre i divari digitali e di genere, soprattutto tra le giovani generazioni?
"Il progetto STEM UP, selezionato e sostenuto dal Fondo per la Repubblica Digitale, contribuisce a ridurre i divari digitali e di genere soprattutto tra le giovani generazioni creando percorsi formativi e di orientamento concreti, innovativi e inclusivi nelle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche (STEM). Si rivolge a studentesse e studenti degli ultimi anni delle scuole secondarie di secondo grado, coinvolgendo anche docenti e famiglie, con l’obiettivo di sviluppare competenze pratiche e consapevoli attorno a tecnologia, sostenibilità e nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale generativa. Le attività si svolgono attraverso laboratori interdisciplinari che collegano scuola, università e mondo del lavoro, favorendo un’esperienza educativa diretta e significativa. Un elemento centrale del progetto è la sensibilizzazione sul gender gap nei percorsi scientifici e tecnologici: attraverso esperienze di laboratorio, orientamento e dialogo con aziende e università, STEM UP cerca di rendere più visibili le opportunità nelle carriere STEM e di incoraggiare le ragazze a scegliere questi ambiti, sconfiggendo stereotipi di genere che spesso limitano le scelte formative. Coinvolgendo una rete di 15 scuole in Piemonte, Toscana e Liguria insieme a università, imprese e realtà del territorio, il progetto costruisce una comunità educante attiva e consapevole. Non si limita ad insegnare nozioni, ma favorisce una riflessione informata sulle scelte future di studio e lavoro, aiutando i giovani a comprendere le potenzialità delle discipline STEM come opportunità reali per il loro futuro professionale. In sintesi, STEM UP riduce i divari digitali e di genere non solo aumentando le competenze tecniche, ma offrendo percorsi di orientamento e di partecipazione che rompono barriere culturali e ampliando l’accesso reale alle opportunità STEM per tutte e tutti".
Se potessimo immaginare una città progettata davvero a partire dalle identità digitali e dalla partecipazione, come cambierebbe il nostro modo di vivere lo spazio urbano?
"Se immaginassimo una città progettata davvero a partire dalle identità digitali e dalla partecipazione, cambierebbe prima di tutto il modo in cui la città ascolta. Lo spazio urbano non sarebbe più progettato solo sulla base di dati astratti o medie statistiche, ma a partire da esperienze situate, rese visibili attraverso strumenti digitali che permettono alle persone di raccontare come vivono i luoghi, quando li attraversano, cosa funziona e cosa no. L’identità digitale, in questo scenario, non serve a identificare un individuo, ma a dare continuità alla sua presenza civica: una voce che può contribuire nel tempo, essere riconosciuta, dialogare con altre. La città diventerebbe più reattiva e adattiva. Le mappe partecipate, le segnalazioni, le narrazioni geolocalizzate trasformerebbero lo spazio urbano in un ambiente leggibile e negoziabile, dove i bisogni emergono prima che diventino emergenze e dove le politiche possono essere testate, monitorate e corrette insieme alla cittadinanza. Cambierebbe anche il modo di abitare: meno consumo passivo dello spazio e più cura condivisa. Le persone non sarebbero solo utenti della città, ma co-produttori di conoscenza urbana. La partecipazione digitale, se ben progettata, ridurrebbe le distanze tra centro e margini, tra chi decide e chi vive i territori, rendendo visibili soggetti e pratiche oggi spesso invisibili. In definitiva, sarebbe una città meno rigida e più relazionale, dove il digitale non sostituisce la presenza fisica ma la rafforza, e dove lo spazio urbano smette di essere uno sfondo neutro per diventare un processo collettivo in continua trasformazione".

Monica Cerutti durante una consultazione a Castenaso.
Chi è Monica Cerutti?
Esperta di innovazione digitale e sociale e di politiche di genere, Monica Cerutti costruisce il suo percorso professionale all’incrocio tra tecnologia, istituzioni e partecipazione. Si forma all’Università di Torino, dove si laurea in Scienze dell’Informazione, maturando fin da subito una lunga esperienza nel mondo del lavoro informatico, in un settore ancora fortemente segnato da squilibri di genere. Negli anni, l’impegno sul fronte tecnologico si intreccia con quello pubblico. Cerutti vanta una lunga esperienza come amministratrice, culminata nel ruolo di assessora regionale del Piemonte tra il 2014 e il 2019, periodo in cui lavora su politiche pubbliche legate a innovazione, diritti e inclusione. Un’esperienza che segna in modo profondo il suo sguardo sulle città e sui processi decisionali. Dal 2020 è ricercatrice presso il Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino, dove si occupa di tecnologie civiche digitali, concentrando il proprio lavoro sul rapporto tra strumenti digitali, partecipazione democratica e trasformazione dei territori. Parallelamente, entra a far parte del Consiglio di amministrazione di SMAT – Società Metropolitana Acque Torino, portando la propria competenza anche all’interno di una grande infrastruttura pubblica. Il riconoscimento del suo profilo interdisciplinare la porta a essere nominata esperta nel board sull’uso etico delle tecnologie emergenti del Comune di Torino, oltre a entrare nel comitato scientifico del CIRSDe – Centro Interdisciplinare di Ricerca e Studi su Donne e Genere, e di Junco, rivista dedicata ai temi dell’università e della cooperazione internazionale allo sviluppo. Sul piano internazionale, Cerutti è facilitatrice certificata del Participatory Gender Audit dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) e socia fondatrice di UN Women Italy, di cui coordina il Comitato scientifico, contribuendo al dialogo tra ricerca, policy e advocacy sui diritti delle donne. È infine Ambassador di Donne 4.0 e Women in AI Italy, a conferma di un impegno costante nel promuovere una cultura tecnologica inclusiva, capace di interrogarsi sui propri impatti sociali e di genere.
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