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21 Dicembre 2025 - 00:09
JARED KUSHNER IMPRENDITORE E POLITICO STATUNITENSE, STEVE WITKOFF INVIATO SPECIALE DEGLI STATI UNITI IN MEDIO ORIENTE
Una sera d’inverno, sulla riva di Gaza, il rumore delle ruspe copre il frangersi delle onde. Dove fino a poco tempo fa c’erano palazzi, strade e mercati, oggi resta una distesa continua di macerie. In una delle 32 slide di una presentazione classificata come “sensitive but unclassified” compare però un’immagine completamente diversa: un lungomare ordinato, torri di vetro, hotel di lusso, resort, una “Gaza Riviera” che si estende per chilometri. Il progetto si chiama Project Sunrise ed è stato elaborato da un gruppo guidato da Jared Kushner e Steve Witkoff. Secondo i documenti, il costo stimato è di almeno 112,1 miliardi di dollari in dieci anni. Al di là dei rendering, però, restano irrisolte le domande centrali: chi finanzia davvero l’operazione, chi esercita il potere decisionale e, soprattutto, dove vivranno oltre due milioni di palestinesi durante una ricostruzione così profonda e invasiva.
Secondo le anticipazioni circolate sulla stampa internazionale, Project Sunrise propone di trasformare Gaza in una destinazione costiera ad alta tecnologia. Il piano prevede reti elettriche “intelligenti” basate su IA (Intelligenza Artificiale), una linea ferroviaria ad alta velocità da nord a sud, grattacieli residenziali, porti e aeroporto completamente ricostruiti, una nuova capitale amministrativa chiamata “New Rafah”, oltre a distretti industriali e quartieri “smart” con servizi digitali centralizzati. La bozza indica un impegno iniziale degli Stati Uniti pari a quasi 60 miliardi di dollari, tra contributi a fondo perduto e garanzie sui prestiti, nei primi dieci anni. Il resto dovrebbe arrivare da donatori internazionali e da una progressiva capacità di autofinanziamento della Striscia di Gaza, man mano che l’economia riparte. Le slide, accompagnate da immagini patinate e tabelle di costo, sarebbero state mostrate a Egitto, Turchia e ad alcuni Paesi del Golfo, oltre che a investitori privati. Non indicano però nomi di finanziatori né spiegano come e dove dovrebbe essere ospitata la popolazione durante i lavori.
Il gruppo che promuove Project Sunrise ruota attorno a Jared Kushner, genero del presidente Donald Trump, e a Steve Witkoff, imprenditore immobiliare nominato inviato speciale per il Medio Oriente. Fonti vicine al dossier parlano anche del coinvolgimento di consiglieri della Casa Bianca, di contatti con funzionari israeliani e con grandi contractor del settore edilizio. Diversi media sottolineano che il piano sarebbe stato assemblato in circa 45 giorni, un tempo estremamente ridotto per un’operazione di questa portata. L’assenza di dettagli su governance, assetto giuridico e fasi operative alimenta lo scetticismo di funzionari statunitensi che, in via riservata, definiscono la proposta ambiziosa ma ancora priva di risposte politiche e di sicurezza fondamentali.
Il contesto in cui il piano si inserisce rende la sua realizzazione particolarmente complessa. Le dimensioni della distruzione sono documentate da numerosi rapporti: le stime sulle macerie variano da oltre 40 milioni a quasi 60 milioni di tonnellate, con la presenza diffusa di ordigni inesplosi e una rete stradale in gran parte inutilizzabile. Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP, United Nations Development Programme) e OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs) segnalano che la sola rimozione dei detriti richiederà anni e che la ricostruzione complessiva potrebbe durare decenni anche nello scenario più favorevole. Le Nazioni Unite stimano inoltre in circa 70 miliardi di dollari il fabbisogno minimo per riportare la Striscia di Gaza a livelli essenziali di sicurezza e servizi, senza includere progetti aggiuntivi come la “riviera”. Nel frattempo, l’economia locale registra un crollo senza precedenti e una povertà quasi totale.
They are selling dreams of Project Sunrise to loot the gas abundantly available near #Gaza shoreline. https://t.co/ONNB1KsPOn
— Media Scarecrow (@MSMscarecrow) December 20, 2025
Nella bozza circolata, Project Sunrise è articolato in quattro fasi su un arco temporale superiore ai vent’anni. Le prime fasi riguardano la bonifica: rimozione delle macerie, sminamento e neutralizzazione del sistema di tunnel, seguite dal ripristino dei servizi essenziali. In una fase successiva sono previsti alloggi temporanei nel sud della Striscia, tra Rafah e Khan Yunis, e poi quartieri permanenti con torri fino a venti piani, cliniche, scuole, aree verdi e, secondo quanto riportato da alcuni media statunitensi, anche strutture ricreative di alto livello. Dalla parte centrale del programma in avanti, il focus si sposta sullo sfruttamento economico del litorale: circa il 70 per cento della costaverrebbe destinato a resort, marina e intrattenimento, con profitti cumulati stimati oltre 55 miliardi di dollari entro e oltre il decimo anno. Il centro amministrativo della Striscia, nella visione del piano, diventerebbe New Rafah, una città pianificata con oltre 100.000 unità abitative, 200 scuole e 75 strutture sanitarie.
Le questioni decisive restano però irrisolte. Sul piano finanziario, l’ipotesi di un contributo statunitense da quasi 60 miliardi di dollari non colma il divario rispetto ai 112,1 miliardi necessari nei primi dieci anni. Non esiste un elenco di Paesi donatori, istituzioni finanziarie o investitori privati pronti a impegnarsi in un’area ancora esposta a un elevato rischio di conflitto. I contatti con Egitto, Turchia e monarchie del Golfo non si sono tradotti in impegni formali. Sul piano della governance, nella comunità internazionale circolano ipotesi di amministrazioni transitorie, inclusa la creazione di organismi fiduciari con la Banca Mondiale, ma Project Sunrise non chiarisce chi dovrebbe firmare i contratti, controllare i lavori e rispondere ai cittadini. La sicurezza è un altro nodo centrale: molti funzionari statunitensi e regionali ritengono che un progetto di queste dimensioni sia impraticabile senza disarmo delle milizie, stabilità dei confini e un cessate il fuoco duraturo, elementi che la bozza non affronta in modo operativo. Infine, resta aperta la questione più sensibile: dove e come vivrebbero tra 2,0 e 2,3 milioni di sfollati durante i lavori. Organismi delle Nazioni Unite e numerose ONG (Organizzazioni Non Governative) ricordano che qualsiasi ricollocazione forzata o impedimento al ritorno può violare il diritto internazionale.

Il dibattito che accompagna Project Sunrise richiama esperienze già viste in altri contesti postbellici. I promotori sostengono che lasciare Gaza nelle condizioni attuali significherebbe condannarla a una crisi permanente e che una svolta verso turismo, innovazione e logistica potrebbe creare reddito e occupazione. Allo stesso tempo, una parte consistente dell’opinione pubblica e delle istituzioni negli Stati Uniti e in Israele teme che la ricostruzione diventi soprattutto un affare per grandi contractor, più che una risposta ai bisogni della popolazione. Alcuni media anglosassoni hanno evocato modelli già sperimentati in Iraq e Afghanistan, con costi elevati e benefici limitati per i residenti, mentre proposte ideologiche di una “riviera” senza palestinesi sono state respinte da giuristi e organizzazioni umanitarie come incompatibili con il diritto internazionale.
Il confronto tra le cifre è significativo. I 112,1 miliardi di dollari di Project Sunrise superano di molto i circa 70 miliardi indicati da ONU, Unione Europea e Banca Mondiale per una ricostruzione di base. È possibile che il piano includa infrastrutture non essenziali, come alta velocità, grandi complessi turistici e quartieri di pregio, che fanno aumentare i costi. Proprio per questo, osservatori indipendenti chiedono maggiore trasparenza e una distinzione chiara tra ciò che è indispensabile per garantire abitazioni dignitose e servizi essenziali e ciò che risponde a logiche di investimento e rendimento.
Esiste poi un nodo legale e politico. Progetti che modificano in modo sostanziale il governo o l’uso del territorio devono confrontarsi con il diritto internazionale umanitario e con le risoluzioni delle Nazioni Unite. Esperti di diritto dei conflitti armati ricordano il divieto di trasferimento forzato della popolazione e l’obbligo di protezione dei civili. Qualsiasi piano che, direttamente o indirettamente, impedisca il ritorno dei residenti rischia di essere considerato illegittimo. Nel dibattito israeliano non mancano proposte estreme, più volte respinte come piani di espulsione su base etnica. In questo quadro, una ricostruzione credibile richiederebbe una cornice politica condivisa, verifiche indipendenti e una partecipazione palestinese reale ai processi decisionali.
Per trasformare Project Sunrise da presentazione a progetto operativo mancano elementi fondamentali: una sequenza dettagliata degli interventi di sminamento e bonifica ambientale, un piano abitativo temporaneo verificabile con garanzie sui diritti, una struttura finanziaria trasparente con regole anticorruzione e clausole sociali, un meccanismo di sicurezza multilivello e risposte chiare sulle incognite geopolitiche. Senza un cessate il fuoco stabile e senza accordi politici su disarmo, confini e flussi umanitari, qualsiasi investimento resta esposto a un rischio elevatissimo. Lo ha riconosciuto pubblicamente anche il segretario di Stato Marco Rubio, affermando che nessuno investirà seriamente se la prospettiva di una nuova guerra rimane concreta.
Sul piano europeo, si discute di un coordinamento multilaterale della ricostruzione sotto egida internazionale, con priorità a alloggi, sanità, acqua, energia di base e scuole. In Italia, la diplomazia ha espresso disponibilità a contribuire sul piano tecnico e progettuale, in collaborazione con professionisti palestinesi e agenzie delle Nazioni Unite. Se Project Sunrise dovesse andare avanti, sarà necessario integrarlo con programmi compatibili con gli standard internazionali e con i bisogni reali della popolazione, evitando sovrapposizioni e duplicazioni.
Al momento, Project Sunrise resta una bozza: 32 slide, una classificazione amministrativa, immagini accattivanti, stime e promesse. Non è un bando, non è un accordo vincolante, non è una legge. I numeri chiave sono noti, così come le criticità: finanziamenti incerti, governance indefinita, assenza di un piano credibile per gli sfollati e dipendenza da condizioni politiche non controllabili dai proponenti. La distanza tra i rendering e la realtà sul terreno rimane ampia.
Se davvero si volesse passare dal progetto alla ricostruzione, la sequenza logica sarebbe un’altra: prima la rimozione delle macerie, la bonifica e il ripristino dei servizi vitali, poi alloggi transitori con diritti certi, quindi abitazioni permanenti accessibili. Solo in una fase successiva potrebbero trovare spazio interventi turistici e simbolici. Questo richiederebbe gare internazionali trasparenti, un fondo fiduciario con controlli indipendenti, una cabina di regia che includa rappresentanti palestinesi, ONU, Unione Europea, Banca Mondiale e Paesi donatori. Tutto ciò presuppone però condizioni di sicurezza e legalità che, oggi, non sono garantite.
Project Sunrise promette un nuovo inizio. Ma, osservato da vicino, mostra soprattutto le domande a cui deve ancora rispondere: diritti dei cittadini, priorità umanitarie, sostenibilità economica e legittimità politica. In un territorio segnato da distruzioni profonde, la ricostruzione non può limitarsi a un esercizio di progettazione. Deve partire da garanzie concrete, perché ogni intervento abbia come primo obiettivo la protezione e la dignità di chi a Gaza vive e vuole continuare a viverci.
Fonti utilizzate: Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs), Nazioni Unite, Banca Mondiale, Unione Europea, stampa statunitense e anglosassone, dichiarazioni pubbliche di Marco Rubio, documentazione su Project Sunrise.
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