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20 Dicembre 2025 - 10:24
Gli Stati Uniti bombardano la Siria: vendetta contro l’ISIS o nuova escalation nel deserto?
Nel buio metallico della steppa siriana, tra le rovine di Palmira, una scia a bassa quota attraversa l’aria. È un A-10 Thunderbolt II dell’U.S. Air Force, l’aereo da supporto ravvicinato progettato per colpire bersagli terrestri. Subito dopo arriva il rombo. A terra, un deposito mimetizzato nella Badia siriana, il vasto deserto che occupa il centro del Paese, si illumina per un istante e poi scompare. È una delle oltre settanta esplosioni coordinate dell’Operazione Hawkeye Strike, l’azione militare lanciata dagli Stati Uniti come risposta diretta all’imboscata del 13 dicembre 2025, nella quale sono morti due militari americani e un interprete civile. Un’operazione che, per dimensioni, intensità e tempistica, va letta non solo sul piano militare ma anche su quello politico e strategico.

Secondo quanto comunicato dallo U.S. Central Command (CENTCOM, Comando Centrale degli Stati Uniti), con sede a Tampa, l’operazione è iniziata alle 16:00 della East Coast americana di venerdì 19 dicembre 2025 ed è stata definita la più ampia azione statunitense contro Isis (Stato Islamico) in Siria degli ultimi anni, nonché la più vasta sequenza di attacchi aerei contro le sacche jihadiste dalla fine dell’ultima grande campagna della coalizione internazionale. I raid hanno colpito più di settanta obiettivi riconducibili all’organizzazione in diverse aree della Siria centrale e orientale. Sono stati impiegati caccia F-15 ed F-16, velivoli A-10, elicotteri d’attacco AH-64 Apache e sistemi di artiglieria a razzo HIMARS (High Mobility Artillery Rocket System), con il supporto diretto della Royal Jordanian Air Force, a conferma del ruolo centrale della Giordania nel dispositivo regionale anti-Isis. In totale, secondo il comando americano, sono state utilizzate oltre cento munizioni di precisione contro infrastrutture, depositi di armi, centri operativi e siti logistici del gruppo jihadista. L’ammiraglio Brad Cooper, comandante del CENTCOM, ha spiegato che l’obiettivo è impedire che le cellule residue possano pianificare o ispirare attacchi contro gli Stati Uniti, i partner regionali e la stessa “homeland” americana.
La decisione di colpire in modo così esteso arriva a sei giorni dall’attacco del 13 dicembre nei pressi di Palmira, città simbolo e nodo strategico nel deserto siriano. Le ricostruzioni disponibili indicano che l’agguato sarebbe stato compiuto da un membro delle forze di sicurezza siriane, sospettato di avere legami o simpatie con Isis, che avrebbe aperto il fuoco durante un’attività congiunta con militari americani prima di essere neutralizzato. Nell’attacco sono rimasti uccisi due soldati della Guardia Nazionale dell’Iowa e un interprete civile, mentre altri militari statunitensi e siriani sono rimasti feriti. È stato l’episodio più grave per le forze statunitensi in Siria da molti mesi e ha riportato sotto i riflettori una vulnerabilità strutturale già nota ma spesso sottovalutata: la capacità delle cellule jihadiste di infiltrarsi negli apparati di sicurezza locali.
Il contesto politico in cui avviene l’operazione è particolarmente delicato. La nuova leadership di Damasco, insediata dopo un processo di transizione che ha chiuso la lunga fase del potere di Bashar al-Assad, ha dichiarato di voler collaborare con Washington nella lotta contro i resti dello Stato Islamico. Dopo l’attacco di Palmira, le autorità siriane hanno condannato pubblicamente l’imboscata e ribadito l’impegno a impedire che il territorio torni a essere un rifugio per gruppi jihadisti, segnalando una convergenza tattica che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile.
Dal punto di vista militare, Hawkeye Strike è stata concepita come un’operazione combinata e ad alta intensità. L’uso coordinato di aviazione, elicotteri e artiglieria a razzo risponde all’esigenza di colpire rapidamente una rete di obiettivi distribuiti in aree difficili da controllare, saturando le possibilità di fuga e dispersione delle cellule colpite. La scelta di munizionamento guidato di precisione, sottolineata più volte dal CENTCOM, mira a ridurre il rischio di vittime civili e di danni collaterali in un territorio a bassa densità abitativa ma attraversato da piste informali, accampamenti temporanei e insediamenti rurali. I bersagli, secondo le informazioni diffuse, includono centri di comando, depositi di armi, officine, infrastrutture logistiche e punti di raccolta lungo il corridoio che va dalle zone a nord di Palmira verso Deir Ezzor e Raqqa. Alcuni strike avrebbero preso di mira cellule impegnate nello sviluppo e nell’uso di droni, una delle capacità su cui Isis ha investito dopo la perdita del cosiddetto califfato territoriale.
Il bilancio delle vittime tra i miliziani resta incerto e frammentario. L’Osservatorio siriano per i diritti umani (OSDH), organizzazione con sede nel Regno Unito che monitora il conflitto attraverso una rete di fonti locali, ha riferito che i raid avrebbero causato almeno cinque morti tra i membri di Isis nell’est della Siria, tra cui il presunto responsabile di una cellula specializzata nell’uso di droni nell’area di Deir Ezzor. Si tratta di stime preliminari, destinate a essere riviste con il progredire delle verifiche sul terreno. Le autorità statunitensi, al momento, non hanno fornito numeri ufficiali sui miliziani uccisi. Il CENTCOM ha però ricordato che, nei giorni successivi all’attacco del 13 dicembre, forze americane e partner locali hanno condotto dieci operazioni tra Siria e Iraq, tra uccisioni e arresti, che avrebbero portato alla neutralizzazione complessiva di ventitré presunti operatori jihadisti.
Sul piano politico, i messaggi inviati da Washington sono stati espliciti. Il presidente Donald Trump ha definito la risposta “massiccia” e “molto riuscita”, affermando che chi colpisce cittadini o militari americani deve aspettarsi una reazione più dura di quanto abbia mai sperimentato. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha parlato di una rappresaglia mirata e di una vera e propria “dichiarazione di vendetta”, precisando al tempo stesso che l’operazione non rappresenta l’inizio di una nuova guerra. La linea ufficiale insiste sul concetto di deterrenza: alzare il costo di ogni attacco contro il personale statunitense.
Gli Stati Uniti mantengono attualmente circa mille militari in Siria, impegnati in missioni di addestramento, intelligence e controterrorismo, spesso in collaborazione con attori locali. Nonostante il progressivo ridimensionamento della presenza americana in Medio Oriente, la persistenza di cellule di Isis nel deserto centrale e lungo corridoi transfrontalieri porosi ha imposto negli anni una strategia di pressione costante. In questo quadro, Hawkeye Strikerappresenta un salto di intensità, una risposta concentrata a un evento considerato una linea rossa.
Anche il nome dell’operazione ha un valore simbolico. Hawkeye Strike richiama il soprannome dello Stato dell’Iowa, “Hawkeye State”, ed è un riferimento diretto ai due militari della Guardia Nazionale dell’Iowa uccisi a Palmira. Nella tradizione militare americana, la scelta dei nomi non è mai neutra e serve a comunicare determinazione sia all’interno del Paese sia verso alleati e avversari.
Le implicazioni regionali non sono secondarie. Il coinvolgimento della Giordania conferma la percezione condivisa che la minaccia di Isis abbia una dimensione transfrontaliera e che la Badia siriana non possa tornare a essere una zona grigia fuori controllo. Per Damasco, sostenere politicamente l’operazione significa rafforzare la propria immagine di interlocutore affidabile nella fase di ricostruzione dell’ordine interno. Per Washington, il messaggio è rivolto sia agli alleati sia ai potenziali avversari: la capacità di proiezione militare resta intatta quando vengono colpiti interessi americani.
Restano tuttavia diverse incognite. Un’operazione di queste dimensioni può indebolire in modo significativo le strutture logistiche di Isis, ma può anche spingere cellule disperse a tentare azioni di ritorsione asimmetriche. C’è poi il tema della narrazione: in assenza di verifiche indipendenti capillari, eventuali danni collaterali potrebbero essere sfruttati dal gruppo jihadista a fini propagandistici. Infine, il coordinamento tra i numerosi attori presenti sul terreno siriano resta una variabile delicata, anche se finora non sono emerse frizioni evidenti.
Sul piano tattico, l’obiettivo dichiarato è ridurre la capacità operativa delle cellule di Isis nel deserto centrale, rendendo più difficile la pianificazione di imboscate e attacchi mordi e fuggi. Sul piano strategico, il segnale è che gli Stati Uniti, pur riorientando le proprie priorità globali, non intendono lasciare spazi vuoti in cui il jihadismo possa riorganizzarsi. Quanto l’operazione riuscirà a incidere in modo duraturo sulla presenza di Isis lo diranno solo le prossime settimane, quando sarà possibile valutare se la frequenza e la letalità degli attacchi diminuiranno davvero.
Nel mosaico mediorientale del 2025, il deserto siriano non appare più come una terra senza controllo. La scia lasciata dagli A-10 sopra la Badia racconta una realtà semplice: la guerra contro Isis non è conclusa, ma procede a fasi, alternando pressione costante e colpi concentrati quando una soglia viene superata.
Fonti utilizzate: U.S. Central Command (CENTCOM), Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, dichiarazioni ufficiali di Donald Trump e Pete Hegseth, Osservatorio siriano per i diritti umani (OSDH), Reuters, Associated Press, Washington Post.
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