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Hotel Trump sulle rovine della NATO? Affari, potere e memoria: perché a Belgrado il progetto Kushner è saltato

Il ritiro di Affinity Partners dopo l’inchiesta della magistratura serba sul Generalštab bombardato nel 1999 svela un intreccio di investimenti miliardari, deroghe legislative, accuse di abuso d’ufficio e una mobilitazione studentesca che ha fermato l’operazione

Hotel Trump sulle rovine della NATO? Affari, potere e memoria: perché a Belgrado il progetto Kushner è saltato

Jared Kushner

Una sera d’inverno, tra i vuoti anneriti del complesso ministeriale devastato dai bombardamenti della NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) del 1999, una torcia illumina travi piegate e cemento spezzato. Un cartello provvisorio promette lavori “imminenti”. Poco più in là, una studentessa regge un cartone scritto a mano: Qui non si cancella la memoria. Poche ore dopo arriva la retromarcia. La Affinity Partners, società dell’imprenditore e consigliere politico Jared Kushner, annuncia il ritiro dal progetto di un hotel di lusso a Belgrado, previsto proprio su quell’isolato simbolo della guerra, l’ex quartier generale dell’esercito jugoslavo noto come Generalštab. Quasi in contemporanea, la procura serba mette sotto accusa il ministro della cultura Nikola Selaković e altri funzionari per presunte irregolarità negli atti che avevano aperto la strada all’operazione. Affari, politica e memoria collettiva entrano in collisione in modo diretto, dopo anni di rinvii e silenzi.

La Affinity Partners comunica ufficialmente la rinuncia all’iniziativa che prevedeva la costruzione di un albergo e di un complesso residenziale sull’area dell’ex Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore jugoslavo, in via Nemanjina, colpiti durante i raid del 1999. Un portavoce della società spiega che progetti di questa portata dovrebbero unire, non dividere. Nello stesso passaggio temporale, la Procura per il crimine organizzato deposita un atto di accusa contro Selaković e altri tre indagati, ipotizzando abuso d’ufficio e falsificazione di documenti nella procedura che aveva rimosso la tutela di bene culturale dai palazzi danneggiati. Il presidente Aleksandar Vučić difende pubblicamente l’operazione, parla di caccia alle streghe e quantifica in almeno 750 milioni di euro il valore dell’investimento perso. Intanto, le manifestazioni e i sit-in studenteschi attorno al sito si moltiplicano.

belgrado

Il luogo conta, e molto. Nel centro amministrativo di Belgrado, lungo uno degli assi istituzionali della capitale, i due corpi dell’architettura modernista progettata da Nikola Dobrović mostrano ancora oggi fenditure, vuoti e piani spezzati che rimandano direttamente alla guerra. Per una parte ampia della popolazione serba quelle rovine non sono un “vuoto da riempire”, ma un memoriale informale dei bombardamenti della NATO. La decisione di revocare la tutela e consentire un riuso immobiliare ha toccato una sensibilità trasversale, che supera schieramenti politici e differenze generazionali.

Secondo gli atti e le ricostruzioni giornalistiche, la protezione sull’area è stata rimossa attraverso un intervento normativo speciale, un lex specialis, che avrebbe aggirato prassi consolidate e pareri tecnici. È proprio su questo passaggio che si concentra l’inchiesta giudiziaria: documenti ritenuti manipolati, procedure accelerate, un bene culturale trasformato in area edificabile in vista di una concessione fino a 99 anni a favore di una cordata privata collegata alla famiglia Trump. La questione non è più soltanto urbanistica, ma riguarda il rispetto delle regole e il funzionamento dello stato di diritto.

L’impianto dell’operazione, al netto dei rendering diffusi a più riprese, era chiaro. La Affinity Partners, finanziaria fondata nel 2021 e sostenuta da capitali del Golfo, avrebbe coordinato lo sviluppo, con un hotel a marchio Trump, gestito in licenza dalla Trump Organization, affiancato da spazi residenziali e commerciali. Un ruolo centrale era attribuito a Eagle Hills, società emiratina di Mohamed Alabbar, già protagonista del progetto Belgrade Waterfrontlungo il fiume Sava. Finanza mediorientale, branding statunitense e partner locali si intrecciavano in un’operazione ad alto impatto simbolico.

Documenti trapelati indicano che un veicolo collegato a Kushner, Atlantic Incubation Partners LLC, avrebbe detenuto una quota di controllo nella joint venture con lo Stato serbo. L’accordo prevedeva demolizioni rapide e una concessione pluridecennale del suolo pubblico, elementi che hanno alimentato accuse di opacità e acceso il dibattito pubblico.

Il 15 dicembre 2025 la Procura per il crimine organizzato formalizza l’atto di accusa contro Selaković e altri tre indagati. Al centro, la presunta falsificazione di un atto tecnico e l’abuso di potere nella catena amministrativa che ha portato alla perdita dello status di bene culturale del Generalštab. Se confermate, le accuse potrebbero comportare pene fino a cinque anni di reclusione. Nelle stesse ore, la Affinity Partners annuncia il passo indietro, rivendicando rispetto per i cittadini di Belgrado. La sequenza temporale pesa.

La reazione di Vučić è dura. Il presidente denuncia un attacco all’investitore, parla apertamente di caccia alle streghe e accusa opposizione e magistratura di danneggiare l’interesse nazionale. Sullo sfondo, mesi di tensioni con il movimento studentesco anti-corruzione, che ha fatto del caso Generalštab uno dei propri simboli.

Dalle proteste seguite al crollo della tettoia della stazione di Novi Sad alle occupazioni universitarie, la mobilitazione studentesca è diventata un attore politico riconoscibile. Sit-in, cortei e presìdi davanti alle istituzioni hanno trovato nell’ipotesi dell’hotel di lusso sulle rovine del 1999 un simbolo immediato. In più occasioni migliaia di persone sono scese in strada, anche in date legate agli anniversari dei bombardamenti, per ribadire che quelle macerie non sono merce immobiliare. La richiesta, sostenuta da associazioni, architetti e settori dell’accademia, è quella di un memoriale civile o di un restauro conservativo, non di una cancellazione fisica del segno.

Il ritiro della Affinity Partners ha un peso che va oltre la Serbia. L’operazione metteva insieme capitali del Golfo, relazioni dell’entourage Trump e la strategia di Belgrado di attrarre investimenti esteri. Il dietrofront mostra i limiti di progetti in cui il rischio reputazionale supera il ritorno economico. Sul piano istituzionale, è la magistratura ad aver inciso con un atto formale, segnalando un livello di autonomia osservato con attenzione anche dall’Unione europea. Un hotel a marchio Trump in un luogo così carico di significato avrebbe avuto un valore politico oltre che commerciale. Il no indica la tenuta sociale contro operazioni percepite come imposte dall’alto.

Le narrazioni restano contrapposte. Per il governo, l’investimento rappresentava riqualificazione urbana, occupazione e prestigio internazionale. Per i comitati civici e parte del mondo accademico, l’affare è l’esempio di un’appropriazione privata di un bene della memoria collettiva, facilitata da scorciatoie legislative. L’investitore ha scelto di evitare lo scontro, prendendo le distanze da qualunque illecito e rinunciando in un contesto diventato giudiziariamente e socialmente instabile.

Il futuro dell’area resta aperto. La procedura di revoca della tutela, ora sotto esame, e il procedimento penale condizioneranno ogni scelta. Tornano in campo ipotesi di concorsi internazionali per un memoriale o di conservazione attiva delle rovine. L’atto di accusa contro Selaković apre una frattura politica e manda un segnale chiaro: le procedure contano quanto i progetti. Per gli investitori, il caso è un avvertimento sulla necessità di consenso pubblico nei luoghi ad alta densità simbolica.

In Europa sono rari esempi di investimenti privati di centinaia di milioni messi così direttamente a confronto con la memoria della guerra. A Belgrado, le rovine del Generalštab continuano a parlare. Trasformarle in suite di un cinque stelle avrebbe significato imporre un’altra narrazione. La società civile ha opposto resistenza e l’investitore ha scelto di fermarsi. Ora resta una città sospesa, in attesa di una decisione condivisa, con la consapevolezza che non ogni vuoto urbano è un lotto edificabile e che, in alcuni luoghi, l’unico progetto possibile passa dal rispetto.

Fonti: Procura per il crimine organizzato della Serbia; dichiarazioni ufficiali di Affinity Partners; interventi pubblici del presidente Aleksandar Vučić; ricostruzioni giornalistiche di Reuters, Associated Press, The New York Times; documentazione del Ministero della Cultura serbo; testimonianze dei movimenti studenteschi di Belgrado.

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