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15 Dicembre 2025 - 10:50
Sui social una raffica di insulti ai ciclisti. In strada pesano regole ignorate e un dibattito polarizzato
“Siete solo birilli”, “le bici non dovrebbero stare in strada”, “arrestiamo chi ha fatto le ciclabili”. È il sottofondo quotidiano con cui convivono ciclisti e utenti dei monopattini nelle città italiane, tra commenti sui social e comportamenti pericolosi sull’asfalto. Un clima che racconta molto più di una semplice antipatia: racconta una mancanza strutturale di educazione stradale, soprattutto verso chi non guida un’auto. Da qui nasce una proposta destinata a far discutere: otto ore obbligatorie di pratica della bici nelle scuole guida prima di ottenere la patente.
L’idea arriva dal collettivo spontaneo Belparcheggio, formato da centinaia di persone che ogni giorno si spostano in bicicletta, in cargo-bike o in monopattino. La richiesta è stata messa nero su bianco in una petizione online che ha già raccolto quasi 14 mila firme, un numero che cresce e che racconta un disagio diffuso ben oltre i confini locali. Non si tratta di un’iniziativa di nicchia né di una provocazione estemporanea, ma di un tentativo di rimettere al centro la convivenza tra utenti della strada.
A spiegare il senso della proposta è Sirio Romagnoli, cicloattivista e promotore della petizione, che sintetizza così la filosofia dell’iniziativa: «L’idea è che l’educazione arriva dove la repressione non riesce. I futuri automobilisti devono rendersi conto di cosa significa spostarsi in bici in città, ma anche spingere chi già si muove su due ruote o in monopattino a rispettare il codice della strada. L’obiettivo finale è la convivenza di tutte le persone che si trovano in strada». Non una guerra all’auto, dunque, ma un tentativo di ridurre il conflitto quotidiano attraverso l’esperienza diretta.

I numeri raccontano una storia interessante. Solo il 10% dei firmatari vive a Torino, mentre quasi il 90% arriva da fuori Piemonte, segno che il problema è percepito come nazionale. «Alcune firme sono arrivate anche da expat che vivono all’estero», sottolinea Romagnoli. Una conferma indiretta del confronto impietoso con altri Paesi europei, dove la cultura della bicicletta non è relegata alla buona volontà dei singoli, ma è parte integrante della formazione civica.
Il modello di riferimento non è nascosto. «Nei Paesi Bassi, per esempio, nelle scuole gli alunni devono ottenere un patentino obbligatorio, seppur simbolico, in cui dimostrano di conoscere le norme per spostarsi in sicurezza per strada». Un approccio che in Italia appare ancora lontano, nonostante l’aumento costante di piste ciclabili, zone 30 e politiche urbane orientate alla mobilità sostenibile.
Romagnoli parla per esperienza diretta. Ogni giorno percorre il tragitto casa-lavoro in monopattino e racconta una quotidianità fatta di precedenze negate, manovre improvvise, sorpassi a distanza minima. «Molti automobilisti non si rendono conto di quanto alcuni atteggiamenti alla guida siano pericolosi», spiega. Episodi che non restano isolati: nella chat condivisa con altri utenti delle due ruote circolano video e testimonianze di quasi incidenti e, in alcuni casi, di scontri veri e propri. «Una volta è successo che un vigile urbano imponesse di scendere dalla bicicletta in un attraversamento ciclopedonale. Se non conoscono loro il codice della strada, figurarsi gli altri cittadini».
Il cuore della proposta sta proprio qui: mettere l’automobilista nei panni del ciclista, anche solo per poche ore. Capire cosa significa affrontare una rotatoria, una corsia stretta, una portiera che si apre all’improvviso. Comprendere che una precedenza mancata o una distrazione al volante possono avere conseguenze molto diverse a seconda di chi si trova dall’altra parte.
L’obiettivo dichiarato è ambizioso ma chiaro: raggiungere un numero di firme sufficiente per consegnare la petizione a un esponente politico disposto a trasformarla in una battaglia istituzionale, magari fino al Parlamento. Le illusioni, però, sono poche. «Sentire il ministro Salvini che delegittima ogni iniziativa volta a incentivare la mobilità dolce non è per nulla incoraggiante, per usare un eufemismo», ammette Romagnoli.
Resta però il segnale. In un Paese dove la strada è ancora percepita come territorio esclusivo dell’auto, la richiesta di otto ore di bici prima della patente mette in discussione una gerarchia consolidata. Non per togliere spazio, ma per ridistribuire responsabilità. Perché la sicurezza, sostengono i promotori, non si impone solo con multe e controlli: si costruisce anche con la conoscenza e con l’esperienza. E, forse, con un po’ di fatica in più sui pedali.
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