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Olivetti delle meraviglie

Donne, informatica e Olivetti: l’eccezione alla regola

Dall’Università di Torino al Giappone degli anni Ottanta, il racconto diretto di una carriera vissuta in un mondo maschile, tra competenza, ostacoli culturali e una parità ancora lontana

Donne, informatica e Olivetti: l’eccezione alla regola

Donne, informatica e Olivetti: l’eccezione alla regola

Nell’ultima occasione pubblica in cui mi sono trovata a parlare di Olivetti (Museo Tecnologic@mente di Ivrea, 29 novembre 2025) non c’è stato un question time associato alla Tavola Rotonda, ma molte persone del pubblico hanno colto l’occasione della pausa caffè che ne è seguita per parlare a tu per tu con chi come me aveva raccontato le sue esperienze di lavoro in Olivetti.

Tra i molti, diversi sono stati quelli che mi hanno chiesto a bruciapelo per esempio di pronunciarmi con franchezza sul peso reale che aveva una donna nell’informatica di quegli anni e in particolare in Olivetti.

Quante erano le donne che avevano un ruolo tecnico in Olivetti? Quante occupavano ruoli direttivi? Com’erano viste in generale dall’universo maschile dominante in azienda negli anni ’80? Come potevo avere fatto io a farmi accettare in un paese come il Giappone, così culturalmente lontano dal nostro, io donna non ancora trentenne, in un mondo di manager anziani?

Non ho resistito a rispondere aggiungendo qualche tassello in più a quanto descritto nel mio libro su Olivetti in GiapponeUna Missione Impossibile.

Tanto per cominciare ho ricordato che parlare di “Informatica” al maschile è un luogo comune, da sfatare, non solo perché è la parola stessa ad essere di genere femminile, ma per le conquiste e le tappe che le donne hanno segnato sul calendario del progresso della scienza informatica.

Le donne nell’Informatica? Poche ma buone si potrebbe dire: il primo algoritmo fu quello della Ada Lovelace (figlia di Lord Byron) nel 1843: linguaggio ADA nel 1979 fu battezzato col suo nome dal Dipartimento della Difesa Americano; il linguaggio BASIC nacque da una idea di Mary Kenneth Keller (1958); il linguaggio COBOL da Grace Murray Hopper (1959); i motori di ricerca degli anni ’90 presero ispirazione dal lavoro di Karen Spärck Jones negli anni ’70.

Poche e in un contesto fondamentalmente maschile in cui era difficile emergere.

Ricordo che quando frequentavo Informatica all’Università di Torino, all’inizio degli anni ’70, il mio corso di Laurea era composto da una trentina di persone, meno di una classe di liceo, e solo 4 erano donne, me compresa. La facoltà era appena nata, non c’erano libri su cui studiare se non pochissimi in inglese o in tedesco e qualche dispensa ciclostilata. Gli assistenti dei professori che ci tenevano i corsi venivano ad ascoltare tutte le lezioni dei titolari di cattedra per poter capire ogni volta un po’ di più e poterci far fare le esercitazioni al pomeriggio. Quando chiedevamo spiegazioni più chiare spesso l’incoraggiamento che ci davano era del tipo: “se non avete capito questo, è inutile che continuiate”.

È vero che nell’arco di una decina di anni la situazione migliorò: ci fu a Torino un tale boom di iscrizioni che il Rettore della facoltà fece pubblicare un annuncio mirato a scoraggiarle. In sintesi diceva “tenete presente che il corso di Laurea è molto difficile, non iscrivetevi se non pensate di essere in grado, così potremo seguire meglio quei pochi che meritano”. Ma che bello scenario!

E in azienda? In Olivetti non c’era discriminazione dichiarata tra uomini e donne ma eravamo comunque “meno di poche” e credo che Marisa Bellisario sia stata la prima e l’unica per molto molto tempo ad avere un ruolo direttivo. Ben poche, dopo di lei, comunque ebbero posizioni di rilievo, una fu Anna Tei, il mio capo prima del progetto Nokyo col Giappone. Brava, competente, ma comunque una donna particolarissima: o eri con lei o eri contro di lei, come sperimentai direttamente sulla mia pelle.

Bisognava essere quindi brave, ma anche molto toste, per brillare, bisognava essere doppiamente più capaci di un collega maschio, bisognava essere delle rompiscatole per riuscire a fare la differenza, bisognava essere una eccezione alla regola.

Ma questo una donna lo sa dalla nascita e non è che oggi le cose alla fine siano molto diverse. Qualcuno si scandalizza se lo dico senza mezzi termini? Non si può farne un titolo da discorsi ufficiali, ma la realtà è che tutt’ora c’è molta strada da fare per una parità vera, di ruolo, di tempo, di remunerazione, di prospettive, di crescita. La foto sopra, di una riunione con personale della Divisione Italia, rende l’idea di quante fossero le donne in ambito Marketing e Commerciale in Olivetti all’inizio anni ’90.

E in Giappone? Sappiamo tutti che oggi il primo ministro giapponese è una donna, ma ci ricordiamo che questo “oggi” del Giappone è avvenuto più o meno 50 anni dopo quando lo stesso era successo in Inghilterra, in India e in Israele? Diverte sentire che Sanae Takaichi si sfoghi a suonare la batteria in casa quando è particolarmente nervosa e che abbia suonato in un gruppo metal rock. Ma la premier giapponese è una eccezione, anzi una ‘eccezione al quadrato’ per la società giapponese, in cui il ruolo prevalente della donna è all’incrocio tra tradizione e progresso.

Agli inizi degli anni ’80 era molto, molto peggio di così, una vera contraddizione in termini. Di regola si vedeva la donna camminare tre passi indietro rispetto al marito, vestita in kimono e con gli occhi bassi, anche se era lei di fatto a tenere i cordoni della borsa in famiglia, a educare i figli e magari a svolgere anche un lavoro tecnico. Se lavorava però quella era cosa in più, non la sua caratteristica primaria.

Ora, veniamo a me, io, donna, in Giappone nel 1982, a 29 anni. Quando mi trovai là, con un incarico così delicato, il rispetto tecnico e intellettuale che riuscii a guadagnarmi fece passare in secondo piano il fatto di essere donna. Con Cesare Monti al mio fianco fu più facile: stimavano lui che stimava me, quindi per la proprietà transitiva dell’uguaglianza, anche loro stimavano me.

Il punto davvero cruciale fu quello di superare l’obiezione di essere molto giovane. L’età tipica del management di una impresa giapponese era di 60 anni ai tempi, la crescita professionale dei dipendenti era molto legata all’anzianità. Gestendo per esempio le visite dei clienti Nokyo a Ivrea, i loro managers avevano mediamente più del doppio dei miei anni e si trovavano davanti a una ragazzina che spiegava loro perché era bene fare quello che stava loro illustrando. Risolsero la contraddizione considerandomi una bella eccezione alla regola.

Condizione esaltante, ma con risvolti scivolosi: dovetti stare sempre attentissima a quello che proponevo di fare, mi avrebbero seguita in tutto e per tutto, anche se avventatamente avessi proposto loro una strada fallimentare. Fu veramente una grossa responsabilità.

E la mia carriera allora? Perché non decollò dopo tutta la fatica e l’impegno, e anche il successo conseguito? Perché? E qui il discorso è complesso, anche se non mi stancherò mai di dire che Olivetti per me fu una grande scuola, meglio di tanti master in strategia. Se la mia carriera sbocciò dopo fu grazie a quello che Olivetti mi aveva insegnato. Ripensandoci credo di avere individuato il nocciolo del problema e lascio a voi le conclusioni proponendovi una chicca: il Decalogo che, in un corso sperimentale ad Haslemere, Inghilterra, dove c’era una scuola che istruiva i futuri managers Olivetti, veniva illustrato a chi doveva diventare un dirigente dell’Azienda.

Non conosco un Dirigente Olivetti che sia durato più di tanto nel suo ruolo avendo messo in pratica quegli insegnamenti. Io mi sono accorta solo ora di averli sempre sentiti giusti istintivamente sotto pelle, punto per punto, anche se ho scoperto il decalogo non più di un mese fa. Allora ecco perché non feci carriera in Olivetti: non ero un manager, ma un imprenditore!

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