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Olivetti delle meraviglie
11 Dicembre 2025 - 17:59
Sistema Mos
Sabato 29 novembre, il Museo Tecnologic@mente Olivetti ha celebrato i suoi vent’anni di attività inaugurando anche una nuova sede per la sua collezione. Durante l’evento si è tenuta una Tavola Rotonda alla quale hanno partecipato diversi protagonisti della storia Olivetti, dagli anni ’60 agli anni ’90, invitati a raccontare il loro coinvolgimento nei sistemi informatici dell’azienda.
Sono stato invitato per parlare del periodo 1975-1985, anni cruciali in cui i sistemi informatici passarono dai modelli proprietari ai sistemi aperti, e per spiegare come Olivetti avesse gestito quella transizione.
Non era una domanda a cui fosse facile rispondere a un pubblico non tecnico, privo dei riferimenti necessari per cogliere davvero le differenze tra i due approcci. Decisi quindi di affrontare l’argomento partendo da un terreno familiare a tutti: le App dei nostri smartphone.
Ho esordito così: «Buon pomeriggio, mi chiamo John Lomas. Nel 1976 fui assunto in un nuovo gruppo creato dall’ingegner Saltini — presente oggi con noi — per sviluppare il software che permette a un computer, una macchina informatica ancora “nuda”, di funzionare. A guidare quel gruppo era l’ingegner Sandro Osnaghi.»
Prima di entrare nel merito di quel software, ritenevo utile un salto avanti di trent’anni, al 2007, quando Apple introdusse l’iPhone. Da quel momento in poi, infatti, utilizzare un computer divenne semplice per chiunque. Oggi tutti noi usiamo le App per le attività più diverse, senza preoccuparci minimamente di cosa ci sia sotto: quale sia l’hardware, quale sistema operativo sia in uso, se sia proprietario o aperto. Non ci chiediamo nemmeno quale sia la differenza fra le due nature.
Ma questa semplicità è una conquista recente. Nel 1976, quando Sandro Osnaghi mi aveva assunto, le cose erano molto diverse.

TC800
A quei tempi la macchina nuda e il suo sistema operativo venivano progettati e sviluppati insieme. A metà degli anni ’70 Olivetti aveva un prodotto straordinario, il TC800, che ebbe successo in tutto il mondo. L’hardware era costruito a Ivrea, e il software veniva sviluppato sempre a Ivrea da Sandro Osnaghi e Clara Mancinelli.
Le consociate Olivetti prendevano questa combinazione — hardware e sistema operativo — e sviluppavano o commissionavano i “programmi applicativi” (le App di oggi) per i clienti del proprio Paese. Se il TC800 veniva venduto alle ferrovie tedesche, era Olivetti Germania — non Ivrea — a scrivere l’applicativo necessario a rispondere alle esigenze del cliente.
Ogni filiale agiva con grande autonomia, e gli scambi di informazioni fra una sede e l’altra erano rari.
Nel 1979 Olivetti decise di investire in una nuova gamma di prodotti hardware e software, la Linea 1 – L1, destinata a sostituire il TC800. Fu un’operazione di proporzioni enormi: oltre 800 anni-uomo di lavoro. La L1 era basata su una nuova tecnologia a microprocessore e come CPU fu scelto lo Z8000 di Federico Faggin, utilizzato anche nell’M20, il Personal Computer Olivetti introdotto nel 1981.
Da quell’investimento nacque il miglior sistema operativo possibile per la L1, il MOS – Multifunctional Operating System. A supporto dello sviluppo venne coinvolto il gruppo di consulenza americano Palyn Associates, incaricato di lavorare insieme a Osnaghi e al suo team — inizialmente Osnaghi, Piero Fiorani ed io — nella fase di progettazione.
Stabilimmo rapidamente un ottimo rapporto con i consulenti, in particolare con Jerry Popek e Charley Kline della UCLA.
Poiché il progetto era imponente e richiedeva concentrazione totale, gran parte del nostro gruppo venne trasferita a Cupertino, in California, per lavorare direttamente alla L1.
I consulenti Palyn erano fortemente favorevoli a un sistema operativo che, all’epoca, era usato principalmente in ambito accademico: UNIX.
UNIX era un caso particolare: sviluppato nei Bell Labs della AT&T, non poteva essere commercializzato per statuto e quindi veniva distribuito gratuitamente alle università americane, che lo modificarono e lo migliorarono. La versione più famosa era quella dell’Università di Berkeley, sviluppata da un giovane studente, Bill Joy, che avrebbe poi fondato Sun Microsystems. L’ho conosciuto personalmente alla fine degli anni ’80.
Parlo di UNIX perché, tra la metà e la fine degli anni ’80, fu proprio UNIX a diventare la base dei sistemi aperti.
Tornando alle discussioni con Popek e Kline, da accademici erano favorevoli a molte delle caratteristiche di UNIX. In effetti, diversi concetti di UNIX entrarono in MOS, ma non nel suo nucleo fondamentale, il kernel.
Dopo molte valutazioni, Osnaghi concluse che il kernel UNIX non fosse adatto a un sistema commerciale e decise di svilupparne uno nuovo, real-time, progettato a Ivrea da Osnaghi, Clara Mancinelli, Piero Fiorani e Mario Cinguino.
Per la parte di MOS che mi era stata affidata, presi ispirazione da UNIX, ma aggiunsi funzionalità specifiche per i clienti Olivetti, che UNIX all’epoca non offriva.
Così, all’inizio degli anni ’80, Olivetti avanzava con decisione nello sviluppo del proprio sistema operativo proprietario MOS, pur continuando a osservare con attenzione ciò che accadeva nel mondo UNIX.
La scelta di AT&T di distribuire gratuitamente il codice sorgente aveva formato una generazione di giovani informatici che conoscevano UNIX alla perfezione. Quando entrarono nelle aziende tecnologiche, fu naturale iniziare a produrre versioni commerciali basate sull’originale AT&T, ma arricchite da contributi di Berkeley e di altre università.
Col tempo, i sistemi UNIX commerciali divennero simili tra loro, ma sempre con leggere differenze.
All’inizio degli anni ’80 quasi tutte le aziende informatiche offrivano una propria versione di UNIX: IBM, DEC, HP e, in Europa, le cosiddette big 5: Bull, ICL, Siemens, Olivetti, Nixdorf.
Nel 1984 queste cinque aziende crearono X/Open, con l’obiettivo di armonizzare le interfacce dei loro sistemi UNIX.
Nel frattempo, ciascuna continuava a sviluppare il proprio sistema operativo proprietario: Olivetti pubblicò la prima versione ufficiale di MOS proprio nel 1984, lo stesso anno della nascita di X/Open, di cui fu membro attivo.
Qual era lo scopo di X/Open?
Stabilire un insieme comune di interfacce che permettesse, almeno in teoria, di eseguire una stessa applicazione su hardware di produttori diversi.
Perché mai volerlo? Non si rischiava di regalare clienti alla concorrenza?
La risposta era duplice: sì, era un rischio. Ma era anche un’opportunità per conquistare clienti altrui, perché i loro applicativi avrebbero potuto funzionare sulle nostre macchine.
Il movimento verso i sistemi aperti prese rapidamente slancio. Anche le aziende americane entrarono in X/Open: IBM, DEC, HP, Sperry, Sun. Forse per collaborare; forse per osservare da vicino i progressi europei.
Personalmente ritengo che Olivetti avrebbe dovuto proseguire con MOS per almeno un altro decennio. MOS era un sistema eccellente, mentre le soluzioni UNIX Olivetti — pur più veloci di molte concorrenti e, in alcuni casi, multiprocessore — non facilitarono una maggiore penetrazione nel mercato.
Con UNIX, Olivetti tentò di cogliere la moda dei sistemi aperti. Nel 1989 nacque il consorzio UNIX International, costituito per fornire ad AT&T elementi utili all’evoluzione di UNIX System V, destinato a diventare il leader di mercato.
Olivetti arrivò a presiedere lo Steering Committee mondiale di UNIX International (ero io il Presidente!).
Fra i membri più autorevoli del comitato c’erano Bill Joy (sì, proprio quello di Berkeley) e Jerry Popek, che aveva contribuito alla progettazione di MOS. Un gruppo straordinario, guidato da Olivetti.
Nonostante ciò rappresentasse un vantaggio teorico eccezionale, Olivetti non riuscì a capitalizzarlo. A mio avviso, la scelta dei sistemi aperti contribuì, paradossalmente, al suo declino.
E i Personal Computer?
Nel 1981 Olivetti aveva introdotto l’M20, un PC con sistema operativo proprietario. Ma un PC, per definizione, non può avere funzionalità “diverse” dagli altri: è una commodity. L’M20 ebbe poco successo, soprattutto per la scarsità di applicativi disponibili.
In quello stesso periodo IBM introdusse il suo PC, basato su microprocessore Intel ma con il software MS-DOS, sviluppato da un giovane Bill Gates.
Gates vendette il software a IBM per 50.000 dollari, ma si riservò il copyright, permettendo così a qualunque altro produttore di utilizzarlo.
Il risultato fu che il PC IBM divenne uno standard de facto, e tutti iniziarono a svilupparci applicativi, facendo la fortuna di Bill.
MS-DOS era proprietario o aperto?
Formalmente proprietario, perché nessuno poteva modificarne il codice sorgente.
Ma di fatto aperto, perché poteva girare su hardware di produttori diversi e perché le sue interfacce erano identiche per tutti.
In queste condizioni Olivetti abbandonò l’M20, nonostante il suo sistema operativo fosse superiore a MS-DOS. Ma, come spesso accade, non sempre vince il migliore.
Nel 1984 Olivetti entrò sul mercato con il PC M24, compatibile IBM. Per la sua progettazione, Luigi Mercurio diede a Sandro Graciotti istruzioni chiarissime: totale compatibilità con IBM; velocità doppia rispetto a IBM; video migliore di IBM.
L’M24 — definito dai detrattori un prodotto me-too, cioè “anch’io” — divenne il prodotto Olivetti più venduto di sempre: un successo straordinario.
Guardando oggi all’evoluzione delle App, è interessante osservare come siano cambiate le dinamiche. Oggi un’App funziona su qualsiasi smartphone. Ai tempi dei sistemi proprietari, invece, quando Olivetti aveva prodotti eccezionali come TC800 e L1 MOS, le App non venivano sviluppate a Ivrea ma dalle filiali o dai clienti stessi, il che garantiva una fortissima fidelizzazione: cambiare fornitore era complicatissimo.
Il passaggio ai sistemi aperti spostò l’attenzione sulle App. Diventò obbligatorio essere conformi a X/Open, un passo importante verso il futuro che oggi viviamo.

5 giugno 1990, New York. Alla Olivetti viene consegnato un certificato che attesta la conformità dei suoi sistemi UNIX agli standard X/Open XPG3.
Ma per Olivetti, nonostante l’impegno, il ruolo di membro fondatore di X/Open e poi di presidente dello Steering Committee di UNIX International si rivelò, a mio avviso, una delle cause del suo declino.
L’azienda smise di essere un pioniere e divenne un follower, una posizione che raramente porta alla vittoria.
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