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Torino “Città Compassionevole”: un anno di monitoraggio per capire se la capitale piemontese regga la sfida della cura collettiva

Fondazione Faro e FPRC guidano il progetto sostenuto da Comune e Regione, mentre Public Health Palliative Care International valuterà risultati, limiti e capacità reale del territorio di colmare le lacune del welfare

Torino “Città Compassionevole”: un anno di monitoraggio per capire se la capitale piemontese regga la sfida della cura collettiva

Torino “Città Compassionevole”: un anno di monitoraggio per capire se la capitale piemontese regga la sfida della cura collettiva (foto di repertorio)

Il riconoscimento è arrivato, ma ora comincia la parte più difficile. Torino è stata ufficialmente accreditata come Compassionate City, una “città compassionevole”, nell’ambito del programma internazionale promosso dalla Public Health Palliative Care International. Si tratta di un titolo che non ha valore simbolico soltanto: comporta un anno intero di monitoraggio, verifica delle attività messe in campo e capacità di dimostrare che la città è in grado di costruire un modello duraturo di sostegno ai cittadini nei momenti di fragilità, malattia, fine vita.

A presentare la candidatura erano state la Fondazione Faro — storica realtà torinese attiva nelle cure palliative e nell’assistenza alle famiglie — e la Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, che sul territorio rappresenta un punto di riferimento nella cura oncologica. Le due realtà hanno costruito una proposta basata su collaborazione, diffusione delle competenze e coinvolgimento della comunità, intercettando il sostegno formale di Comune e Regione. Ma il riconoscimento, pur significativo, non cancella i problemi strutturali con cui Torino e il Piemonte convivono da anni: insufficienza dei servizi sociosanitari, peso crescente sulle famiglie, diseguaglianze di accesso, cronica difficoltà nel garantire un’assistenza territoriale continua.

Nel presentare il progetto, il sindaco Stefano Lo Russo ha insistito proprio su questo punto, mettendo in evidenza le “lacunose” coperture del sistema pubblico. È un’ammissione chiara: dove non arriva l’ente pubblico, intervengono le famiglie e le organizzazioni del terzo settore. Un sistema che funziona solo se tutte le parti reggono il peso. La scommessa è che la rete di collaborazioni costruita intorno alla candidatura — fra enti non profit, associazioni, volontariato, istituzioni e cittadini — possa diventare un ammortizzatore reale, non solo dichiarato.

Anche il presidente della Regione Alberto Cirio ha messo l’accento sul carattere comunitario del progetto, parlando di una sfida che richiede di “superare barriere ed egoismi”. Ma al di là delle parole, resta la questione più complessa: quanto questo riconoscimento potrà incidere sulle politiche pubbliche? Quante risorse verranno stanziate? E soprattutto: quanto la Regione sarà in grado di integrare la rete compassionevole con un sistema sanitario messo a dura prova dalla carenza di personale, dai tempi di attesa e dal divario crescente tra aree urbane e periferiche?

Per la Fondazione Faro, come ha spiegato il direttore generale Luigi Stella, la candidatura rappresenta “la concretizzazione di ciò che un ente del terzo settore moderno dovrebbe essere”: un incubatore capace di intercettare bisogni, generare iniziative e creare percorsi condivisi. Un ruolo che da anni colma vuoti lasciati dalle istituzioni, soprattutto nei percorsi di fine vita e nei servizi domiciliari. La Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro, con il suo direttore generale Gianmarco Sala, ha ricordato che la cura non è mai solo un atto clinico: richiede ascolto, accompagnamento, sostegno continuativo, soprattutto nelle fasi più difficili della malattia oncologica. È una visione che ha trovato slancio proprio nella candidatura e che ora dovrà tradursi in pratiche diffuse sul territorio.

Il riconoscimento di Compassionate City non è un premio definitivo, ma un punto di partenza. Prevede che la città promuova attività di formazione nelle comunità, programmi di sensibilizzazione nelle scuole, coinvolgimento di quartieri, operatori sanitari, volontari, istituzioni religiose, associazioni civiche. Una rete che deve dimostrare di funzionare non solo nelle parole, ma nella capacità di intercettare chi rimane ai margini: anziani soli, malati cronici, caregiver senza supporto, famiglie travolte da malattie improvvise. È lì che si misura il valore di una “città compassionevole”.

Torino parte con una tradizione forte nel settore delle cure palliative e del volontariato, ma anche con tutte le fragilità di un’area metropolitana che negli ultimi anni ha visto aumentare precarietà sociale, solitudine e difficoltà di accesso ai servizi territoriali. Le organizzazioni coinvolte sono consapevoli che il monitoraggio internazionale non riguarderà solo iniziative singole, ma la coerenza complessiva del sistema.

L’esito del prossimo anno dirà se Torino sarà riuscita a trasformare questo riconoscimento in un modello stabile oppure se resterà una buona intenzione, appesa a un titolo importante ma non ancora supportato da un’infrastruttura pubblica solida. La sfida, ora, esce dai comunicati e si sposta sul campo: nelle case, nei quartieri, negli ospedali, nei luoghi dove la fragilità non è un concetto, ma una condizione quotidiana.

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