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Sant’Anna fuori dalla Città della Salute: la riforma che apre più domande che soluzioni

La Giunta difende l’accorpamento con il Regina Margherita come scelta “strategica”, ma tra costi ignoti, rischi clinici e un piano attuativo ancora invisibile, cresce il fronte di chi teme una frammentazione del sistema e un passo indietro per la medicina di genere

Sant’Anna fuori dalla Città della Salute: la riforma che apre più domande che soluzioni

Sant’Anna fuori dalla Città della Salute: la riforma che apre più domande che soluzioni

C’è un filo sottile che attraversa la discussione aperta in Consiglio regionale sul futuro del Sant’Anna e del Regina Margherita: un filo fatto di promesse, timori, ricostruzioni politiche e, soprattutto, di molte domande ancora senza risposta. La proposta della Giunta di fondere i due presidi in una nuova azienda unica — la futura A.O. O.I.R.M. – Sant’Anna — viene presentata come una svolta organizzativa capace di alleggerire la complessa architettura della sanità torinese. Eppure, dietro gli slogan sul “modello più snello” e sui “percorsi innovativi”, emergono dubbi sempre più insistenti, che neppure un dibattito lungo e serrato sembra dissipare.

L’assessore alla Sanità Federico Riboldi ha tracciato un quadro quasi lineare: unire Sant’Anna e Regina Margherita per valorizzare specialità verticali, ridurre la burocrazia, rendere le cure più efficienti. “Trasformiamo una struttura elefantiaca in un modello più gestibile e di qualità”, ha spiegato, promettendo bilanci più chiari e un rafforzamento della medicina di genere, in sinergia con CTO e Molinette. La cornice, insomma, è quella di una modernizzazione necessaria, quasi inevitabile.

Eppure, di fronte a questa narrazione, non pochi osservatori hanno iniziato a chiedersi cosa significhi davvero “snellire” un sistema ospedaliero che, già oggi, dipende proprio dalla stretta integrazione fra i suoi reparti. Perché una cosa è alleggerire una macchina amministrativa; un’altra è dividere presidi che collaborano quotidianamente nelle emergenze più delicate.

Mauro Salizzoni, consigliere regionale del Pd

È stato il Partito Democratico, con Mauro Salizzoni, Gianna Pentenero, Daniele Valle, Daniela Valle, Nadia Conticelli e Laura Pompeo, a mettere nero su bianco i nodi più spinosi: costi ignoti, passività non chiarite, rischi clinici e logistici. Nel loro intervento la parola che ricorre più spesso è opacità. “Si chiede di approvare la nascita di un nuovo ente senza sapere quali passività erediterà”, hanno denunciato. E il tema non è soltanto economico: lo scorporo del Sant’Anna dalla rete della Città della Salute, avvertono, potrebbe spezzare un meccanismo che oggi garantisce rapidità di intervento e multidisciplinarietà, elementi cruciali soprattutto in ginecologia e ostetricia.

La stessa maggioranza, nel difendere la riforma, tradisce indirettamente la complessità del problema. Paola Antonetto, Davide Buzzi Langhi e Luigi Icardi parlano di una Città della Salute “troppo grande e non governabile”, evocando una burocrazia che soffoca l’efficacia clinica. Una diagnosi condivisibile, forse, ma che lascia sullo sfondo una domanda: si può davvero risolvere un problema di dimensioni con un’ulteriore frammentazione del sistema?

Il tema della medicina di genere è poi diventato uno dei punti più sensibili della discussione. La consigliera di Alleanza Verdi e Sinistra Valentina Cera ha messo in guardia dal rischio di separare le specialità dell’adulto dai reparti madre-bambino. “Si indebolisce la medicina di genere e si frammentano i percorsi di cura”, ha osservato, mettendo il dito su un nervo scoperto: il rischio che l’integrazione promessa resti sulla carta, mentre nella realtà clinica quotidiana i percorsi si complicano.

Su questa linea anche il Movimento 5 Stelle, con Sarah Disabato, che definisce l’operazione “un salto nel buio”, soprattutto sul piano finanziario: mancano numeri, piani attuativi, certezze. E Vittoria Nallo (SUE) parla apertamente di riforma che non dà garanzie, né dal punto di vista clinico né da quello economico.

Il confronto di stamattina con l’associazione 194 Voci ha aggiunto un elemento che va oltre la politica: la voce di chi vive ogni giorno la realtà delle cure dedicate alle donne. Per loro lo scorporo è un errore di fondo: “La letteratura scientifica ci dice che le patologie complesse richiedono un approccio multidisciplinare”. Una frase semplice, ma che sintetizza uno dei timori principali: che la riforma nasca più dalla volontà di ridefinire assetti amministrativi che da una reale visione clinica condivisa.

Riboldi ha provato a rassicurare: “Gestione ottimale, percorsi comuni e condivisi, rafforzamento del percorso mamma-bambino”. Promesse che suonano rassicuranti, ma che per molti non eliminano l’impressione che, in un momento così cruciale, si stia procedendo senza quella trasparenza che un cambiamento di questa portata richiederebbe.

Ed è forse questo il punto che emerge più forte alla fine della giornata: il divario tra la velocità politica della Giunta e la prudenza richiesta da chi teme conseguenze cliniche ed economiche. Per alcuni la riforma è un’occasione per modernizzare; per altri rischia di inceppare proprio quei meccanismi che tengono insieme la cura delle pazienti più fragili.

In un contesto così, al di là delle dichiarazioni e delle contrapposizioni politiche, resta una domanda che ancora attende risposta: si può ridisegnare la mappa della sanità piemontese senza avere prima chiaro quanto costerà, come funzionerà e quali effetti reali avrà sulla vita di migliaia di donne e bambini?

La discussione in Aula riprenderà nelle prossime sedute. Ma una cosa è chiara: più questa riforma procede in avanti, più si moltiplicano gli interrogativi. E spesso, quando le domande continuano ad aumentare mentre le risposte restano le stesse, significa che il problema non è sotto il tappeto, ma al centro del tavolo.

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