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Protesta Postalcoop davanti a Poste Italiane: lavoratori senza stipendio e senza un lavoro

A Torino il flash mob davanti a Poste Italiane racconta il prezzo umano di un’indagine che ha smantellato anni di appalti e subappalti: mezzi sequestrati, azienda commissariata, nessuna risposta sul futuro di chi ha garantito consegne per un decennio.

Protesta Postalcoop davanti a Poste Italiane:  lavoratori senza reddito e filiera nel caos

Protesta Postalcoop davanti a Poste Italiane: lavoratori senza reddito e filiera nel caos

Martedì 2 dicembre, davanti alla sede di Poste Italiane di via Alfieri, a Torino, sono da poco passate le undici quando una trentina di lavoratori della Postalcoop si radunano per un flash mob che ha il sapore dell’urgenza, della paura e di una dignità ferita. Appendono ai cancelli lenzuola bianche con frasi tracciate in vernice nera che parlano da sole: “Nexive basta sfruttarci”, “Poste Italiane, anni di lavoro per essere trattati come pacchi”. È la fotografia brutale di una storia che negli ultimi mesi è esplosa come una mina sotto i piedi di decine di famiglie.

Quello che accade oggi in via Alfieri non è un semplice sciopero improvvisato. È la conseguenza diretta di un terremoto giudiziario che, nel giro di poche ore, ha spazzato via anni di attività. La Postalcoop, cooperativa di Ciriè con sedi a Settimo Torinese e Verolengo, impegnata nelle consegne per la filiera Nexive–Poste, è finita al centro dell’Operazione Epicentro: un’inchiesta che ha portato all’amministrazione giudiziaria, al sequestro dei mezzi e allo stop immediato di ogni attività.

Il provvedimento porta la firma del gip Lucia Minutella, che nelle carte descrive un sistema illecito “reiterato e collaudato”, tanto radicato da rendere il rischio di nuove irregolarità “non solo probabile, ma certo”. A coordinare l’indagine il procuratore Giovanni Bombardieri e il pm Giulia Marchetti, mentre il Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Torino ha condotto l’operazione sul campo.

Gli inquirenti contestano alla cooperativa una lunga serie di irregolarità: rapporti di lavoro opachi, buste paga incoerenti, una gestione societaria definita sospetta e una rete di subappalti che — secondo gli investigatori — avrebbe permesso di comprimere salari e diritti pur di restare competitivi. Per i lavoratori tutto questo non è una rivelazione. Da anni denunciano turni massacranti, consegne moltiplicate, pressioni costanti sui tempi, mezzi inadeguati e una gestione che sembrava vivere in una perenne zona grigia. L’inchiesta, per molti, ha semplicemente messo nero su bianco ciò che veniva raccontato ai sindacati da tempo: straordinari non riconosciuti, premi mai arrivati, contratti rinnovati a singhiozzo, precarietà elevata a sistema. È bastata un’ordinanza del tribunale perché l’intera impalcatura si sgretolasse.

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E quando la magistratura ha bloccato la macchina, a rimanere schiacciati sono stati proprio loro: autisti, portalettere, facchini che ogni giorno garantivano la consegna di migliaia di pacchi e lettere. Il risultato è ciò che si vede oggi sui marciapiedi del centro: stipendi non pagati, contratti congelati, famiglie senza reddito e, soprattutto, nessuna comunicazione dalla committenza. Poste Italiane, che usufruiva del servizio garantito da Postalcoop e Nexive, si è ritrovata all’improvviso con un pezzo di filiera paralizzato. Ma il peso — ancora una volta — è ricaduto sugli ultimi della catena.

Da settimane i lavoratori cercano risposte: vogliono sapere se ci sarà un ricollocamento, un assorbimento da parte di nuovi fornitori, un percorso chiaro di tutela. Finora, però, hanno ricevuto solo silenzi, rimbalzi burocratici, riunioni annunciate e poi rinviate. È la terra di mezzo degli appalti, dove chi lavora non ha voce e chi decide scarica verso il basso ogni responsabilità sociale.

In questo scenario, il flash mob assume un valore diverso. Non è solo una protesta: è un SOS. Al microfono, davanti alla sede di via Alfieri, si alternano le testimonianze. Andrea Pistillo, dipendente Postalcoop, parla con voce ferma ma segnata dalla stanchezza. Ricorda anni di lavoro sotto pressione, straordinari non riconosciuti, cambi organizzativi imposti da un giorno all’altro. Poi la mazzata dell’inchiesta: “Ci siamo trovati senza niente, senza mezzi, senza stipendio e senza qualcuno che ci spiegasse cosa sarebbe successo.” Molti colleghi, racconta, hanno chiesto prestiti ai familiari per pagare l’affitto. Altri stanno pensando di lasciare il settore, ma chi ha fatto questo mestiere per quindici o vent’anni, spesso, non sa dove ricollocarsi. Pistillo annuncia anche l’intenzione di portare la protesta fino a Roma: “Se qui nessuno ascolta, bisogna andare dove si decide davvero.”

Accanto a lui interviene Nunzia Mastrapasqua, della Cgil Torino, tra le prime a raccogliere le segnalazioni dei lavoratori dopo il sequestro dei mezzi. Parla di un sistema degli appalti sempre più fragile, dove le esternalizzazioni diventano una terra di nessuno: “Sono anni che denunciamo come i lavoratori degli appalti postali vivano su un filo sottilissimo.” Poi la frase che gela l’aria: “Oggi abbiamo 36 lavoratori senza stipendio e senza un lavoro che qualcun altro sta già svolgendo. E non vi dico in quali condizioni.” Una denuncia che fotografa l’assurdità: mentre i dipendenti Postalcoop sono fermi, le consegne continuano altrove come se nulla fosse.

Nel frattempo la cooperativa, ora commissariata, prova faticosamente a rimettere ordine. Il commissario giudiziario tenta di ricostruire una struttura che — secondo gli atti — accumulava criticità in ogni settore: contratti, mezzi, sicurezza, retribuzioni. Ma il tempo della giustizia non coincide con quello della vita reale. E i lavoratori restano sospesi: senza attività, senza stipendio, senza garanzie di assorbimento nella filiera Nexive–Poste. È l’effetto non solo di un’inchiesta, ma di un modello basato su una catena di subappalti dove la responsabilità sociale evapora non appena si scende di un gradino.

Il flash mob si chiude senza slogan, senza cori, ma con un lungo applauso amaro. La sede di Poste rimane imponente e silenziosa sullo sfondo, mentre gli striscioni continuano a sventolare anche dopo che i lavoratori si sono allontanati. Non è una protesta da grandi numeri, non riempie le piazze, ma racconta con precisione chirurgica un’Italia del lavoro lasciata ai margini: un’Italia che consegna pacchi ma non riceve risposte.

E oggi, a Torino, quelle risposte le hanno chieste guardando negli occhi il committente più grande del Paese. Non per pretendere privilegi, ma per reclamare ciò che dovrebbe essere scontato: uno stipendio, un futuro, e la fine di un sistema in cui basta un’indagine per far precipitare nel buio la vita di decine di famiglie. Per questo sono scesi in strada. Per questo continueranno a far sentire la loro voce. Perché un’inchiesta non dovrebbe mai tradursi nel silenzio e nell’abbandono di chi lavora.


La dichiarazione della consigliera regionale Nadia Conticelli

“Da settembre Postalcoop non ha più garantito lo stipendio ai dipendenti: trenta corrieri e sei impiegati sono a casa dal 19 settembre e sono ancora in attesa dell’accoglimento della richiesta di cassa integrazione. È inaccettabile che a pagare il prezzo di un’inchiesta giudiziaria siano 36 lavoratori che, fino allo stop imposto dalla cooperativa, hanno garantito ogni giorno la continuità delle consegne. Inoltre la vicenda non finisce qui: Postalcoop ha anche altri committenti, e si apre il tema della responsabilità in solido tra committente e appaltatore. Chiederò alla Regione di accompagnare questo percorso con un confronto tra tutti i soggetti coinvolti.”

“È necessario un tavolo tra parti sindacali e tutti i soggetti coinvolti, a partire da Poste, affinché si chiariscano responsabilità e prospettive per i lavoratori Postalcoop. Peraltro Poste è in fase di assunzione per la rete corrieri, e questi sono lavoratori già formati e specializzati.”

L'inchiesta

L’inchiesta Epicentro è una delle operazioni più vaste che la Procura di Torino abbia messo in campo negli ultimi anni nel settore della logistica. Nasce in silenzio, dopo mesi di controlli, di accertamenti fiscali, di segnalazioni da parte dei sindacati e di lavoratori che parlano di buste paga in ritardo, aziende che aprono e chiudono all’improvviso, assunzioni fatte da un giorno all’altro e revocate con la stessa rapidità. A settembre, quando la Guardia di Finanza entra negli uffici delle società coinvolte, la macchina è già pronta a scattare.

Secondo gli investigatori, al centro del sistema ci sarebbero due società: Postalcoop, con sede a Ciriè, e CargoBroker, attive nel settore della logistica e degli appalti per la consegna dei pacchi. Attorno a loro, una costellazione di aziende più piccole: cooperative, società a responsabilità limitata, imprese di breve durata. Tutte collegate fra loro da rapporti commerciali e amministrativi che, secondo la Procura, avevano un unico scopo: abbattere i costi del lavoro ed eludere contributi, tasse e obblighi contrattuali.

Il meccanismo — spiegano gli inquirenti — era semplice nella logica e complesso nell’esecuzione. Le società “principali” ricevevano commesse importanti. Poi una parte di quel lavoro veniva trasferita a società “filtro”, che lo rifatturavano. Infine, la manodopera veniva affidata a una serie di cooperative e ditte “serbatoio”, formalmente incaricate delle assunzioni, ma spesso prive di mezzi, strutture e capitali. Queste ultime accumulavano debiti, non versavano contributi, non pagavano l’IVA dovuta e, una volta diventate ingestibili, sparivano. Venivano sostituite da altre, nuove di zecca, pronte a ripetere lo stesso schema.

Secondo la Guardia di Finanza si trattava di un sistema “reiterato e collaudato”, messo in piedi per ridurre i costi del lavoro e garantire prezzi competitivi nei confronti dei grandi committenti della logistica. Un sistema che, secondo gli atti, avrebbe coinvolto oltre 2.000 lavoratori tra il 2018 e il 2023. E le cifre sequestrate danno l’idea della portata: il giudice ha disposto un sequestro preventivo da 26,5 milioni di euro, mentre l’ammontare delle fatture ritenute sospette supera i 100 milioni.

Le accuse ipotizzate sono pesanti: associazione per delinquere, emissione di fatture per operazioni inesistenti, dichiarazioni fiscali fraudolente, omesso versamento dell’IVA, intermediazione illecita di manodopera. Accuse che non riguardano solo la contabilità, ma anche le condizioni di chi, quei pacchi, li consegnava ogni giorno.

Dalle verifiche, infatti, emergono testimonianze e documenti che descrivono un quadro tutt’altro che regolare: lavoratori che passavano da una società all’altra senza alcuna spiegazione, contratti che cambiavano ogni pochi mesi, straordinari non riconosciuti, stipendi versati a singhiozzo, turni lunghi e spesso non rispettosi delle norme. Per la Procura, si trattava di una gestione che metteva al centro l’abbattimento dei costi, lasciando ai margini i diritti di chi lavorava.

Il 10 settembre l’operazione diventa pubblica. La Guardia di Finanza sequestra mezzi, conti correnti, immobili e documenti. La Postalcoop viene messa in amministrazione giudiziaria: un commissario nominato dal tribunale prende in mano l’azienda e tenta di ricostruire la contabilità, verificare i contratti, capire cosa sia realmente sostenibile e cosa no. È un lavoro enorme: anni di fatture, società collegate, passaggi di personale, conti da ricostruire. Nel frattempo, molte attività si bloccano.

L’inchiesta mette anche in luce un altro elemento: la fragilità del sistema degli appalti nel settore della logistica. Una filiera lunga, fatta di contratti al ribasso, esternalizzazioni, subappalti a cascata e cooperative che vengono aperte e chiuse con estrema facilità. Quando una di queste cade, l’intera struttura trema. E il terreno — come si vede nell’operazione Epicentro — ha ceduto.

La Procura sottolinea che il rischio di reiterazione del sistema era “concreto e attuale”, e che solo un intervento drastico poteva interrompere un ciclo che produceva risparmi illeciti per le società coinvolte e debiti enormi verso lo Stato. Il sequestro, dunque, è arrivato come misura necessaria per arginare quello che gli investigatori ritenevano un fenomeno in continua evoluzione.

L’inchiesta ora continua. Ci sono documenti da analizzare, responsabilità da individuare, ulteriori flussi finanziari da seguire. Non è escluso che l’indagine possa ampliarsi ad altri soggetti o a nuove società collegate. I magistrati stanno approfondendo anche il ruolo dei committenti e la struttura degli appalti, per capire se le condizioni contestate trovassero terreno fertile proprio in un sistema che, da anni, viene indicato come uno dei più problematici del panorama industriale italiano.

Quel che è certo è che Epicentro ha aperto una crepa profonda. Ha mostrato che dietro la rapidità delle consegne, dietro il ritmo incessante dell’e-commerce, dietro la corsa dei pacchi che arrivano in poche ore, esiste un mondo fatto di cooperative che falliscono, di contratti fragili e di imprese che reggono interi settori con equilibri sottilissimi.

Il quadro definitivo emergerà nei prossimi mesi, ma un punto appare già chiaro: questa inchiesta segna uno spartiacque. Per la logistica piemontese, per il sistema degli appalti e per chi, ogni giorno, garantisce la consegna di migliaia di pacchi che muovono l’economia. È una fotografia nitida di ciò che succede quando la catena degli appalti si spezza e lascia dietro di sé conti da ricostruire, aziende commissariate e — soprattutto — un sistema da ripensare.

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