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01 Dicembre 2025 - 17:16
Assalto a La Stampa, la risposta del collettivo «Rabbia accumulata». Ma redazione e politica parlano di intimidazione
Il commento del Collettivo Universitario Autonomo è arrivato pochi giorni dopo l’identificazione di alcuni partecipanti al blitz nella sede torinese de La Stampa. Un testo ruvido, diffuso sui social, che ribalta completamente la lettura dell’episodio: non un attacco alla libertà di stampa, ma — nella loro versione — lo sfogo di una “rabbia accumulata in due anni di bugie”. Così lo definiscono, respingendo al mittente le accuse e minimizzando quanto avvenuto venerdì pomeriggio in via Lugaro, quando una frangia del corteo per lo sciopero generale ha sfondato un accesso laterale, gettato letame contro i cancelli e imbrattato i muri del palazzo.
Il collettivo sostiene che “nessuno si è fatto male” e che l’episodio sarebbe stato gonfiato per costruire “la consueta retorica dell’attacco alla democrazia”, quella che — dicono — viene evocata ogni volta in cui si criticano istituzioni e informazione. La loro ricostruzione si spinge oltre: “Davvero lo hanno fatto perché barbari? O perché riconoscono, come ogni lettore attento, che i giornali hanno sempre avuto un ruolo centrale nel legittimare il potere e, oggi, nel legittimare il genocidio in Palestina?”. Una lettura politica estrema, che colloca il quotidiano torinese su un fronte di conflitto e lo descrive come bersaglio di una contestazione “spontanea”, scaturita dal contesto mediorientale e dalla gestione dei flussi informativi.
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La distanza tra questa versione e quella fornita dal direttore del giornale è evidente. Andrea Malaguti ha parlato di “violenza cieca”, di un’irruzione che “non sa quello che fa”, ma che produce un effetto devastante. Ha raccontato il ritorno dei colleghi nella redazione devastata mentre era in corso lo sciopero di categoria, e ha sottolineato la “giovinezza” dei partecipanti al blitz, una cosa che “colpisce due volte”, perché a suo giudizio rivela l’esistenza di un disagio sociale manipolabile. Malaguti ha parlato di un gesto “gravissimo”, perché colpisce non solo una sede fisica, ma “la casa di tutti i giornalisti”, descrivendo lo sconcerto e il senso di smarrimento davanti a muri imbrattati, giornali rovesciati, sedie ribaltate, minacce urlate contro un operatore che stava riprendendo la scena.
Alla sua voce hanno fatto eco in poche ore le istituzioni. Il Quirinale e Palazzo Chigi hanno espresso solidarietà alla redazione, insieme a rappresentanti di tutto l’arco politico, dalla segretaria del Partito Democratico Elly Schlein fino al leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. A livello locale il sindaco Stefano Lo Russo ha definito l’assalto “un gesto inaccettabile”, mentre il presidente della Regione Alberto Cirio ha parlato di “atto particolarmente odioso” contro un presidio di democrazia. Il presidente del Consiglio regionale, Davide Nicco, ha rilevato l’evidente contraddizione della protesta: “Se dici di manifestare per difendere un uomo pacifico e lo fai devastando una redazione, smentisci te stesso”.
Il mondo sindacale ha reagito con la stessa compattezza. La Cisl ha definito l’irruzione “un vile assalto”, la Uil ha parlato di “democrazia che non si difende con gli assalti”, mentre il sindacato dei giornalisti — che proprio quel giorno scioperava per un contratto fermo da dieci anni — ha denunciato un attacco “inaccettabile contro chi lavora per garantire un’informazione libera e plurale”. La ministra dell’Università Anna Maria Bernini ha scritto che “fare irruzione in un giornale significa minare la democrazia”, mentre esponenti di Fratelli d’Italia hanno denunciato la “matrice estremista” dell’azione, criticando chi, a sinistra, avrebbe condannato “in modo generico”.
Il commento del collettivo arriva, dunque, dentro un quadro già teso, quando la Digos ha identificato numerosi partecipanti alla frangia violenta staccatasi dal corteo. I manifestanti hanno contestato La Stampa accusandola di essere “complice” del trasferimento dell’imam Mohamed Shahin al CPR e del suo decreto di espulsione, una tesi che non trova alcun riscontro fattuale ma che è stata usata come giustificazione politica del gesto. Il direttore Malaguti, da parte sua, ha ribadito che il giornale non ha mai smesso di fare il proprio lavoro “con serietà, verificando i fatti”, e ha criticato la logica per cui la violenza diventerebbe una forma accettabile di dissenso: “Se il punto è confrontarsi, siamo sempre disponibili. Se il punto è spaccare tutto, è solo stupidità e autodistruzione della propria causa”.
In questo quadro rimane un interrogativo di fondo: fino a che punto la protesta può trasformarsi in incursione, vandalismo, intimidazione? Il collettivo parla di “rabbia contro il potere e i suoi apparati”. Le istituzioni leggono nei fatti di via Lugaro un attacco diretto alla libertà di stampa. La redazione vivrà ancora a lungo il peso simbolico di quelle scritte sui muri e del letame lanciato sui cancelli. E mentre gli inquirenti continuano a lavorare alle identificazioni, resta la frattura profonda tra chi difende la libertà di contestare e chi vede, in questo episodio, la conferma di un clima radicalizzato, in cui l’informazione rischia di essere trasformata in bersaglio, non per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta.

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