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“No war, yes peace”: il ballo di Maduro a Miraflores diventa messaggio politico alla Casa Bianca

Il presidente Nicolás Maduro trasforma il Día del Estudiante in un messaggio diretto agli Stati Uniti, mescolando performance pop, appelli alla pace e propaganda, mentre nel Mar dei Caraibi cresce la pressione militare della Casa Bianca.

“No war, yes peace”: il ballo di Maduro a Miraflores diventa messaggio politico alla Casa Bianca

“No war, yes peace”: il ballo di Maduro a Miraflores diventa messaggio politico alla Casa Bianca

Nel salone principale del Palacio de Miraflores la musica rimbalza sulle pareti ornate di stucchi come in un club improvvisato. Una base elettronica, un sintetizzatore che ripete ossessivo un ritornello nato per viralizzare, e una voce che tutti riconoscono, quella di Nicolás Maduro, che si sovrappone in inglese rudimentale: “No war, yes peace”. Il presidente del Venezuela alza le braccia, ondeggia appena, regala un mezzo sorriso. Sotto il palco, centinaia di studenti applaudono e rispondono all’unisono, trasformando un messaggio politico in un coro pop. È un frammento di diplomazia spettacolarizzata, studiato per farsi ascoltare ben oltre le mura del palazzo: la Casa Bianca è il vero destinatario, in un momento in cui il Mar dei Caraibi è attraversato dalla più imponente presenza navale statunitense degli ultimi decenni e Washington discute “nuove opzioni” dentro la rinnovata campagna antinarcotici dell’amministrazione Trump.

Il video di Miraflores è diventato in poche ore materiale da dibattito globale. Rimbalza sui social, viene ripreso dalle tv latinoamericane e commentato con toni opposti: chi lo considera una trovata surreale, chi un gesto calibrato, chi un tentativo di abbassare la tensione mentre portaerei e cacciatorpediniere USA pattugliano un quadrante dove ogni incidente potrebbe diventare detonatore diplomatico. La scena si è svolta durante la celebrazione del Día del Estudiante, davanti a brigate universitarie convocate per ricordare la mobilitazione del 21 novembre 1957 contro la dittatura di Marcos Pérez Jiménez. In mezzo a slogan patriottici, Maduro ha scandito in inglese volutamente elementare: “Dialogue yes, peace yes, respect yes… war no, never, never war”, chiedendo agli studenti venezuelani di “connettersi” con i coetanei americani per portare un messaggio comune: “guerra no, pace sì”.

Non è la prima volta che il presidente utilizza registri così disarmanti. Nelle ultime settimane ha persino intonato “Imagine”, ironizzando sul proprio “linguaggio tarzaneado” quando si rivolge agli Stati Uniti. Ripete in più occasioni: “No crazy war, please”. È un codice comunicativo volutamente semplice, quasi infantile, che molti a Caracas interpretano come un tentativo di presentarsi al mondo come parte ragionevole del confronto mentre l’US Navy intensifica operazioni e pattugliamenti. Un messaggio indirizzato meno alle élite di Washington e più a quel pubblico americano che, nella narrazione chavista, dovrebbe diventare alleato della pace contro l’aggressività dei “falchi” del Pentagono.

La cornice scelta da Maduro non è casuale. Il Día del Estudiante, celebrato dal 1957, rappresenta uno dei momenti simbolici della storia democratica venezuelana. Dal 2020 la ricorrenza è stata estesa all’intero mondo studentesco, caricandosi di un valore identitario: è la gioventù che, nella retorica chavista, incarna la difesa della patria e il rifiuto dell’ingerenza straniera. In un clima internazionale incandescente, parlare agli studenti significa costruire una narrazione di pace radicata nel patriottismo, un ponte simbolico tra il Venezuela e l’immaginario progressista americano che il governo vorrebbe intercettare.

Il contesto strategico è però molto più duro della musica di Miraflores. Dall’inizio di settembre 2025, gli Stati Uniti hanno rafforzato in modo significativo la propria postura militare nel quadrante caraibico. Prima operazioni aeree e navali contro imbarcazioni sospettate di narcotraffico, poi, l’11 novembre, l’arrivo della portaerei USS Gerald R. Ford, accompagnata dal suo carrier strike group: cacciatorpediniere classe Arleigh Burke, un sottomarino d’attacco, capacità aeree avanzate e, separatamente, un Amphibious Ready Group con unità del Marine Corps. Una proiezione di forza che eccede la normale interdizione antidroga. Il Pentagono parla di “colpire cartelli e narcoterroristi”; gli osservatori indipendenti leggono nella mossa un chiaro segnale politico indirizzato a Maduro, soprattutto da quando Washington ha incrementato a 50 milioni di dollari la taglia sulle informazioni utili alla sua cattura, accusandolo — accuse che lui respinge — di legami con il cosiddetto Cartel de los Soles.

maduro

La campagna ha già lasciato un segno pesante. Dal 2 settembre, le operazioni statunitensi contro barche sospettate di traffico hanno provocato più di 80 morti in oltre 20 azioni cinetiche. Diversi governi dei Caraibi, da Trinidad e Tobago a member states del CARICOM, hanno segnalato l’allarme per la sicurezza dei pescatori e per il rischio di colpire imbarcazioni non armate. Anche giuristi e ONG sollevano dubbi sulla legalità dei raid in acque internazionali, mentre negli USA la discussione si concentra sulla reale utilità strategica di un dispositivo navale di queste dimensioni: la droga che fa più vittime negli Stati Uniti, il fentanil, arriva infatti per vie terrestri, non marittime.

In parallelo, Washington ha riattivato la base navale di Roosevelt Roads a Porto Rico come hub avanzato, segno di una presenza destinata a durare. Per gli analisti della regione, questo dispiegamento ridisegna la geografia del potere nel Caribe: non solo rotta del narcotraffico, ma teatro ibrido dove si intrecciano deterrenza, competizione geopolitica, pressioni diplomatiche e rischi di escalation.

A Caracas, il governo risponde con una miscela di dimostrazioni militari e strategia comunicativa. Maduro ha dichiarato lo stato di “massima preparazione”, ordinando esercitazioni costiere, mostrando batterie di difesa aerea di fabbricazione russa e cinese — dagli S-300VM ai Buk-M2E — e rilanciando la narrativa dell’“assedio straniero”. Ma è sul fronte simbolico che la sua strategia diventa più evidente: alternare postura di autodifesa e linguaggio pop, mescolare musica, slogan e performance mediatiche per ribaltare l’immagine di un leader isolato e presentarsi al mondo come protagonista di una “pace attiva”. Il ballo di Miraflores, con la sua estetica volutamente naif, si inserisce in questo mosaico: trasformare la diplomazia in un linguaggio emotivo e immediato, rivolto agli americani come se fossero spettatori di un talk show politico globale.

Nella grammatica chavista, la messa in scena collettiva non è mai un elemento secondario. Slogan, danze, canti, citazioni pop non servono solo a mobilitare il pubblico interno: sono strumenti con cui parlare al mondo senza mediazioni diplomatiche, spostando sugli Stati Uniti l’onere dell’escalation. Il messaggio è chiaro: se il conflitto dovesse salire di livello, sarà Washington — non Caracas — a doverne rispondere all’opinione pubblica internazionale.

Eppure il rischio resta altissimo. Una presenza militare di questa portata in una zona densamente trafficata è il terreno ideale per gli incidenti: errori di identificazione, attacchi a imbarcazioni civili, risposte sproporzionate, droni intercettati, navi che si avvicinano troppo. Ogni episodio può accendere una miccia. Per questo, nel ginepraio caraibico, il linguaggio pop di Miraflores si sovrappone a un reticolato di norme, regole d’ingaggio e potenziali imprevisti, componendo uno scenario dove la diplomazia sembra giocarsi più sull’estetica che sulla sostanza.

Il coinvolgimento degli studenti aggiunge un’altra dimensione. Il 21 novembre è una data identitaria per la gioventù venezuelana: evocarla in un momento di tensione internazionale significa chiamare la società civile a fare da ponte tra il Paese e il mondo. Maduro chiede agli studenti di “connettersi” con i coetanei statunitensi, immaginando una diplomazia orizzontale che scavalca cancellerie e ministeri, chiedendo alla piazza di diventare interlocutrice diretta della Casa Bianca. Una scommessa audace, ma tutta da verificare nella sua efficacia.

Resta, alla fine, una frase che è diventata mantra, colonna sonora e bandiera: “Dialogue yes, peace yes… war no”. Tra portaerei e remix, tra show politico e posture armate, il ballo di Miraflores racconta un Venezuela che vuole mostrarsi messaggero di pace mentre prepara le sue difese. Una performance che tiene insieme pubblico interno e platea internazionale, propaganda e desiderio di evitare l’escalation. Ma rimane la domanda cruciale, quella che né musica né slogan possono mascherare: nei prossimi mesi, a dettare il ritmo del Caribe sarà il beat di un remix presidenziale o il rombo della USS Gerald R. Ford?

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