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Gaza, ancora sangue sotto le macerie: 28 morti nella notte che frantuma la tregua

Le bombe israeliane colpiscono Zeitoun, Shejaiya e un edificio ONU a Khan Younis. Tra le vittime intere famiglie in fuga, mentre la Striscia sprofonda in un inferno quotidiano fatto di sirene, polvere e ospedali al collasso

Gaza, ancora sangue sotto le macerie: venticinque morti nella notte che frantuma la tregua

Gaza, ancora sangue sotto le macerie: venticinque morti nella notte che frantuma la tregua

Nel cielo di Gaza non serve più distinguere il giorno dalla notte. È una penombra costante, una luce sporca che arriva dalle esplosioni, dai blackout, dalla polvere che scende leggera come neve grigia. L’ultima notte, quella che avrebbe dovuto essere protetta da una tregua firmata appena sei settimane fa, si è spezzata di nuovo sotto i colpi dei raid aerei israeliani. Prima le sirene, poi i vetri che tremano, infine quel boato che entra nelle ossa come una scossa elettrica. Quando il rumore ha smesso di vibrare nell’aria, erano già ventotto i corpi estratti da sotto le macerie — venticinque, ventisette, ventotto: i numeri si aggiornano a ogni minuto, ma la sostanza non cambia. Diciassette sarebbero donne e bambini, secondo medici locali citati dalla stampa. È il bilancio più alto dalla fine di ottobre, e racconta una realtà che nessuna firma sull’inchiostro del cessate il fuoco è riuscita davvero a tenere insieme.

I raid hanno colpito Gaza City, quartieri densamente abitati come Zeitoun e Shejaiya, e poi sono scesi verso sud, fino a Khan Younis. A Zeitoun è crollato un edificio religioso; a Shejaiya i soccorritori hanno trovato materassi ancora caldi di sonno, interrotti dalla violenza improvvisa. A Khan Younis è stata danneggiata una struttura delle Nazioni Unite che ospitava sfollati: famiglie che avevano già lasciato altrove case distrutte e che qui, in un ammasso di stanze sovraffollate, avevano trovato un rifugio fragile ma almeno esistente. Anche questa volta, la polvere ha ricoperto corpi, vestiti, giocattoli. E nessuno ha avuto il tempo di capire da dove fosse arrivata la bomba: semplicemente, tutto è collassato.

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Israele sostiene che i raid siano stati una risposta immediata a un attacco di Hamas oltre la Linea Gialla, quel tracciato interno alla Striscia — delimitato da blocchi di cemento e pali dipinti di giallo — che dovrebbe separare i reparti israeliani dalle aree sotto controllo palestinese. La tregua di ottobre prevedeva che l’IDF si ridisponesse dietro questa linea entro ventiquattr’ore, e che servisse come confine provvisorio per evitare incidenti e scontri diretti. Ma nella pratica, come denunciano analisi indipendenti e osservatori internazionali, basta un colpo sparato qualche metro oltre il tracciato, basta un movimento non registrato, basta un drone che non rispetta la rotta, e tutto si trasforma in accusa reciproca. Israele parla di risposta proporzionata, di fuoco giustificato da “raffiche contro i propri soldati” vicino a Khan Younis; Hamas denuncia “un massacro”, invoca Egitto, Qatar, Stati Uniti e in alcuni casi anche la Turchia affinché impongano il rispetto della tregua. In mezzo, ancora una volta, cadono i civili.

Quella notte, i medici hanno raccontato di bambini portati negli ospedali tra urla e polvere, di donne tirate fuori vive sotto tre piani di cemento, con le mani che cercavano di proteggere i figli fino all’ultimo. Gli ospedali — quelli che ancora possono dirsi tali — riescono appena a tenere in piedi le sale d’emergenza. Più del 60% delle strutture sanitarie della Striscia è fuori uso. Mancano anestetici, letti, generatori, acqua potabile. A volte manca perfino l’ossigeno. Nelle prime settimane di tregua, l’ingresso degli aiuti era aumentato, alcune sale operatorie avevano ripreso a funzionare, qualche reparto pediatrico aveva riaperto. Ora tutto è di nuovo sospeso. Le ambulanze deviate, i valichi rallentati, le cucine comunitarie chiuse perché le strade sono impraticabili. Ogni nuova esplosione è un filo tagliato di quel tessuto logorato dell’assistenza umanitaria.

Intanto, le cifre dei morti raccontano una storia ancora più feroce. Dall’inizio del grande conflitto del 2023, il bilancio stimato supera i 68.000 palestinesi uccisi. Dopo la tregua del 10 ottobre 2025, le vittime aggiuntive si contano a centinaia: oltre 250-300 secondo alcune stime che includono cadaveri ancora recuperati in questi giorni dalle macerie. Tre quinti degli edifici della Striscia, secondo analisi satellitari indipendenti, sono ormai danneggiati o completamente distrutti. Gaza, di fatto, è un territorio che non ha più un volto riconoscibile: solo macerie, accampamenti, cumuli di cemento accartocciato, strade ridisegnate dalle bombe.

Ma ciò che accade nella Striscia non è l’unico fronte. Quasi in parallelo ai bombardamenti su Gaza, Israele ha colpito Ain al-Hilweh, il più grande campo profughi palestinese del Libano. Undici, forse quattordici morti. Tsahal afferma di aver distrutto un centro di addestramento di Hamas in preparazione di un attacco; fonti palestinesi sul campo parlano di un parcheggio, una moschea, un’auto colpita mentre transitava. È il raid più letale in territorio libanese dall’ultima tregua con Hezbollah. Ed è anche un messaggio geopolitico: la guerra non è più confinata alla Striscia, ma si muove lungo linee sottili, parallele, che possono infiammarsi in qualsiasi momento.

Tornando a Gaza, resta aperta la questione fondamentale: chi certifica la violazione della tregua? Gli Stati Uniti, il Qatar, l’Egitto avrebbero dovuto costituire un meccanismo di monitoraggio costante, ma le dinamiche di combattimento in tempo reale sono difficili da ricostruire. Da dove è partito lo sparo? Dove è caduta la bomba? Qual era la posizione precisa rispetto alla Linea Gialla? Ogni risposta diventa un dossier diplomatico, ogni incertezza diventa una giustificazione per nuove operazioni. Le tragedie, invece, sono immediate.

La notte in cui quei ventotto corpi sono stati estratti tra le rovine è stata una notte come molte altre, e proprio questo la rende più terribile: non c’è più nulla di eccezionale nella morte collettiva a Gaza. I bambini che correvano giù per le scale con i pigiami coperti di polvere, le madri che stringevano sacchi di vestiti e documenti, gli uomini che gridavano i nomi dei parenti scomparsi: tutto questo si ripete. È diventata la normalità. Una normalità che si regge sul filo fragilissimo di una tregua che sulla carta esiste, ma che nella vita reale — quella fatta di sirene, di muri che cadono, di ospedali che crollano — sembra ogni giorno più simile a una finzione.

La diplomazia proverà nelle prossime ore a rimettere insieme i pezzi: finestre di de-escalation, corridoi per gli aiuti, pressioni incrociate su Israele e Hamas. Ma la verità è che ogni nuova bomba rende più difficile credere che una linea di vernice gialla, tracciata su blocchi di cemento, possa davvero contenere una guerra che ha già oltrepassato troppi confini, geografici e umani. E che ogni sirena che ricomincia a suonare nella notte ricorda a un milione e mezzo di persone che la tregua, quando arriva, è solo un intervallo tra due esplosioni. Una pausa, non la pace.

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