Cerca

Esteri

“Nella foschia, un bagliore”: il traghetto Queen Jenuvia 2 si incaglia tra Jeju e Mokpo. Tutti i passeggeri tratti in salvo

Termocamere nella notte, mare mosso e soccorsi coordinati: come la Guardia Costiera sudcoreana ha evitato il peggio al largo di Sinan

“Nella foschia, un bagliore”: il traghetto Queen Jenuvia 2 si incaglia tra Jeju e Mokpo. Tutti i passeggeri tratti in salvo

“Nella foschia, un bagliore”: il traghetto Queen Jenuvia 2 si incaglia tra Jeju e Mokpo. Tutti i passeggeri tratti in salvo

La sagoma bianca del traghetto affiora e scompare nella foschia, come un animale ferito che cerca di restare in equilibrio mentre il mare gli martella il fianco. Dall’alto, sulle immagini sfocate e tremolanti delle termocamere, un rettangolo luminoso pulsa nel buio: è il calore di 267 vite, raccolte sul ponte esterno del Queen Jenuvia 2, strette l’una all’altra mentre l’acqua ribolle intorno allo scafo. In quel rettangolo c’è tutto: la paura trattenuta, il silenzio, l’attesa. È la notte del 19 novembre 2025, al largo della contea di Sinan, quel tratto di mare sud-occidentale della Corea del Sud dove le secche appaiono e scompaiono come illusioni, e dove una rotta sbagliata può trasformare in tragedia una traversata di routine.

asp

Il Queen Jenuvia 2 era salpato da Jeju poche ore prima, diretto a Mokpo, il collegamento marittimo più battuto della provincia di Jeolla Meridionale. A bordo, 246 passeggeri e 21 membri d’equipaggio. Poi il tonfo. Non se lo aspettavano: un urto secco, gli scaffali del bar che si rovesciano, un lieve sbandamento, un attimo di sospensione in cui nessuno capisce se la nave stia per cedere. L’impatto avviene nella zona dell’isolotto di Jangsan, in quell’area di Jokdo dove persino i comandanti più esperti evitano di distrarsi. La prua del traghetto “scala” un affioramento roccioso e resta incastrata, appoggiata come un gigante stordito. Le autorità, ore dopo, diranno che non ci sono stati allagamenti. Ma in quei minuti, sul ponte, nessuno lo sa.

L’allarme arriva alla Guardia Costiera quasi subito. Le prime motovedette tagliano le onde verso l’unità incagliata, mentre un velivolo da pattugliamento illumina dall’alto quel quadrato di calore che diventa il punto di riferimento per tutti. Le termocamere mostrano i gruppi di persone sul ponte, li contano, li localizzano, li seguono. La scena sembra un videogioco, invece è un salvataggio in diretta, con il mare che si infila tra le scogliere e costringe le unità a manovre costanti. I trasferimenti iniziano poco dopo le 20:40: uno alla volta, due alla volta, fino a quando i passeggeri non sono tutti su pattugliatori e mezzi SAR, diretti al molo della Guardia Costiera di Mokpo. Qualcuno inciampa, qualcuno piange. Ci sono cinque feriti lievi, tra cui – riferirà la stampa locale – anche una donna incinta. Nessuno in condizioni gravi. Per una notte del genere, è quasi un miracolo.

A Seul, il presidente Lee Jae-myung ordina un impiego “rapido e pieno” delle risorse statali. A Mokpo, gli uomini della Guardia Costiera coordinano ogni singolo movimento, insieme al Ministero degli Oceani e della Pesca, alle autorità portuali, ai soccorritori, ai medici, ai rimorchiatori che aspettano la finestra di marea buona per provare a liberare il traghetto. È una macchina operativa enorme che si muove nella nebbia, tra scogliere e boe, con una parola d’ordine sola: non perdere nessuno.

Il Queen Jenuvia 2, quasi 26.500 tonnellate di nave, resta fermo con la prua puntata verso la scogliera. È un gigante muto, fotografato dalle telecamere mentre ruota lentamente ad ogni onda più forte. Gli investigatori, già nelle ore successive, parlano di una possibile bassa marea che avrebbe ridotto i margini di sicurezza attorno al fondale affiorante. Una conca, un errore di rotta, una distrazione? Nessuno lo sa ancora. L’inchiesta – spiegano – analizzerà ogni dettaglio: registri di bordo, AIS, radar, cartografia elettronica, comunicazioni radio. Tutto ciò che può ricostruire il minuto esatto in cui il mare ha cambiato la serata di 267 persone.

Nel frattempo, le testimonianze dei passeggeri restituiscono la parte più umana. C’è chi ricorda un “colpo sordo”, chi racconta di essere caduto, chi di aver sentito la voce metallica all’interfono invitare i feriti a raggiungere il punto informazioni, chi riferisce degli scaffali rovesciati nella zona bar. C’è chi aveva già indossato il giubbotto, mentre altri guardavano nel buio sperando di capire cosa stesse succedendo. Le immagini termiche, viste ora, sembrano quasi rassicuranti: tanti piccoli punti caldi che si muovono verso i mezzi di salvataggio. Ma in quel momento, con l’onda lunga che sbatteva contro la roccia, la paura era una presenza solida quanto il ponte sotto i piedi.

È impossibile non pensare al Sewol. Undici anni fa, la Corea del Sud imparò nel modo più crudele che cosa significa avere procedure sbagliate, catene di comando incerte, comunicazioni confuse. Per questo, stanotte, nessuno ha aspettato un secondo di troppo. Nessuno ha dato ordini ambigui. Nessuno ha sottovalutato nulla. Motovedette, rimorchiatori, velivoli, triage a terra, comunicazione costante: un sistema che, almeno questa volta, ha funzionato. Ma non basta: lo ricorda chiunque si occupi di sicurezza marittima, lo ripetono gli esperti. Non ci si può adagiare sul risultato. Perché se questa notte non ci sono stati morti è anche una questione di fortuna, di dinamica dell’impatto, di mare che non ha deciso di prendersi nessuno.

L’alta marea arriva dopo mezzanotte. I passeggeri sono già tutti al sicuro, assistiti, refertati, accompagnati. La nave resta lì, ancora ferma, ancora inclinata. I rimorchiatori studiano come muoverla, come riportarla in acque più profonde. Le verifiche sulla carena richiederanno tempo, ispezioni subacquee, controlli. Qualcuno parla di una possibile falla a prua, anche se senza ingresso d’acqua. Le autorità non confermano. È la parte che viene dopo l’emergenza: quella dei tecnici, non più quella degli uomini con i giubbotti fosforescenti che afferrano le mani ai passeggeri.

Restano da chiarire molte cose: la velocità della nave, le impostazioni degli strumenti di navigazione, la rotta rispetto ai bassi fondali, la comunicazione tra plancia e centri VTS, la presenza o meno di avvisi ai naviganti aggiornati. Tutto ciò che può trasformare questa notte in una lezione. Perché il mare di Sinan non perdona. Cambia umore in pochi minuti. Alza correnti, nasconde scogliere, riporta in superficie ciò che sembrava scomparso. È un mare che chiede rispetto, e che ricorda quanto la prevenzione non sia mai un dettaglio.

Eppure, tra tutte le analisi tecniche e le ipotesi investigative, resta soprattutto un’immagine: quel bagliore caldo che pulsava sulle termocamere. Era la vita di 267 persone che la Guardia Costiera sudcoreana è riuscita a portare via da uno scoglio nella nebbia, in una notte complicata e intensa, in cui ogni onda sembrava voler cambiare il finale. È lì che si misura la differenza: nel calore di quelle sagome vive, nel loro movimento verso le motovedette, nel silenzio rotto solo dal rumore dei motori e dal fruscio delle giacche salvagente. Una luce nella foschia. Una nave ferma tra le rocce. E un mare che, per una volta, ha deciso di restituire tutti.

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Giornale La Voce

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Edicola digitale

Logo Federazione Italiana Liberi Editori