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“Scomparsi alla frontiera”: cosa succede davvero tra Turchia e Bulgaria lungo la rotta balcanica

Respingimenti, controlli senza traccia e vite che svaniscono nel bosco: un viaggio nelle pieghe del confine meno raccontato d’Europa

“Scomparsi alla frontiera”: cosa succede davvero tra Turchia e Bulgaria lungo la rotta balcanica

La chiamata arriva alle tre del mattino su un telefono che vibra nella tasca di un volontario. Una voce, spezzata dal freddo e dalla paura, sussurra una posizione GPS tra i pini del distretto di Burgas, a pochi chilometri dalla recinzione bulgaro-turca. «Siamo in cinque, due non camminano, ci stanno cercando». Poi un rumore di motore, urla, silenzio. Quando gli attivisti raggiungono la radura al mattino trovano solo impronte interrotte vicino a una pista fangosa. Nessun nome, nessun verbale, nessuna traccia. Per l’Europa, quelle persone semplicemente non sono mai esistite. È qui, in questa zona di confine che assomiglia più a un buco nero che a un territorio sovrano, che la frontiera tra Turchia e Bulgaria è diventata il punto più opaco della rotta balcanica: un teatro di respingimenti di cui non resta nulla, nemmeno l’ombra. Un confine che non separa solo due Stati, ma la realtà dalla sua negazione.

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Negli ultimi anni, complice l’inasprimento dei controlli in Grecia, il tratto terrestre tra Edirne e la Stara Planina è tornato a essere l’imbuto della speranza per migliaia di persone. La Bulgaria ha circondato quel lembo di terra con una barriera di filo spinato lunga 146 chilometri, una cicatrice d’acciaio che racconta la fragilità dell’Europa meglio di qualsiasi discorso di Bruxelles. Dietro ogni maglia deformata del reticolato c’è un respingimento, e i numeri lo confermano: secondo un rapporto pubblicato nel febbraio 2025 da un consorzio di ONG europee, nel solo 2024 si contano oltre 120.000 persone respinte alle frontiere esterne dell’Unione. La medaglia d’oro dell’invisibilità spetta proprio alla Bulgaria, con 52.534 esseri umani rimandati verso la Turchia come pacchi indesiderati. Le testimonianze parlano di violenze, sequestri di telefoni, denaro sottratto, cani usati come intimidazione. Una forma di diritto alla rovescia in cui chi chiede protezione perde tutto: documenti, dignità, identità.

Le denunce non sono una novità. Human Rights Watch documenta respingimenti in Bulgaria dal 2014, e in un rapporto del maggio 2022 mette in fila pestaggi, furti e “riammissioni sommarie” senza la minima possibilità di chiedere asilo. Persone spogliate, lasciate nella neve in biancheria, costrette perfino a pronunciare slogan umilianti prima di essere ributtate oltre la recinzione. È la normalità di un confine che espelle perfino la legalità. E non basta la bandiera blu con le stelline dorate a coprire quello che accade tra quei boschi. A febbraio 2024 l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, annuncia il triplicamento degli agenti dispiegati in Bulgaria: 500-600 unità per rafforzare la diga europea contro gli “ingressi irregolari”. Ma più agenti non significa più diritti, e il confine bulgaro lo dimostra ogni giorno.

La maggior parte delle testimonianze converge su un punto inquietante: i migranti vengono intercettati, portati in posti di controllo mobili e “riammessi” in Turchia senza alcuna registrazione. Nessuna impronta in Eurodac, nessuna identificazione, nessuna prova che siano mai stati trattenuti. Una sparizione non fisica ma amministrativa, molto più efficace di qualsiasi muro. Il nuovo Regolamento UE sullo screening, approvato il 14 maggio 2024, dice tutt’altro: identificazione obbligatoria, controlli sanitari, rilevamento delle impronte, monitoraggio indipendente. Tutto perfetto sulla carta. Ma la carta, si sa, non urla durante un respingimento. Il regolamento scatta dopo l’intercettazione. Se le persone vengono respinte prima, lo Stato non deve rendere conto a nessuno. È una voragine giuridica che inghiotte responsabilità, ricorsi, indagini e perfino i cadaveri.

A dicembre 2024 tre adolescenti egiziani muoiono di freddo vicino al confine. Le ONG No Name Kitchen e Collettivo Rotte Balcaniche mettono insieme un dossier fatto di foto, geolocalizzazioni, testimonianze e accuse pesanti: la polizia bulgara avrebbe ignorato le chiamate d’emergenza e ostacolato i soccorsi. Le autorità negano tutto, come sempre, ma la richiesta di un’indagine indipendente cresce. I tre ragazzi diventano il simbolo perfetto di questo confine che non soccorre, non registra, non risponde. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha già condannato respingimenti simili in altri Paesi, definendoli “sistematici”, violazioni del principio di non-refoulement. Nel 2021 la stessa Corte censura la Bulgaria per il respingimento illegale di un giornalista turco. Nulla cambia.

Dal 31 marzo 2024 la Bulgaria entra nell’area Schengen, ma solo per aria e mare. Via terra resta tutto com’era: controlli, barriere, pattuglie, respingimenti. È l’Europa divisa in due: quella che vola e quella che striscia. Bruxelles chiede “gestione efficace” delle frontiere esterne e gli Stati rispondono con più mezzi, più pattuglie e più burocrazia, mentre i diritti continuano a restare a zero.

Intanto le ONG continuano a fare il lavoro che gli Stati fingono di non vedere. Border Violence Monitoring Network, Mission Wings, gli stessi volontari che ogni notte rispondono a telefoni che squillano dal bosco: raccolgono testimonianze, monitorano i respingimenti, costruiscono banche dati che diventano l’unica memoria possibile di ciò che le istituzioni vorrebbero cancellare. Ma i volontari sono spesso bersaglio di intimidazioni, controlli arbitrari, fermi “per accertamenti”. A febbraio 2025 la Relatrice speciale dell’ONU sui difensori dei diritti umani, Mary Lawlor, scrive alle autorità bulgare chiedendo protezione per chi soccorre. La risposta ufficiale è un silenzio che somiglia molto a un no.

E anche quando qualcuno riesce a entrare nella macchina amministrativa bulgara, la vita resta una sospensione infinita. Nei centri come Harmanli si registrano ostacoli per accedere all’istruzione, ai servizi bancari, al lavoro. Perfino dopo aver ottenuto documenti regolari, la burocrazia continua a trattare queste persone come provvisorie. Alcuni report descrivono pressioni per ottenere “ritorni volontari” da siriani con profili a rischio. È la burocrazia usata come arma, non come garanzia.

Di notte, ai margini del bosco, il quadro si ricompone nelle parole di un volontario: «Li abbiamo visti, ma non potevamo avvicinarci. Ci hanno detto: procedura in corso. Dopo, non c’era più nessuno». E nel racconto di una sorella che aspetta da mesi: «Mio fratello ci ha mandato la posizione e una foto del filo spinato. Poi il telefono è morto. A Istanbul non è tornato, a Sofia non risulta». È sempre lo stesso dolore. Quando non c’è un nome registrato da nessuna parte, non ci sarà nemmeno un responsabile.

La retorica europea della “tolleranza zero” celebrata nei comunicati e nei salotti istituzionali si scioglie di fronte a un dato elementare: chi non viene registrato può sparire senza che nessuno debba spiegare nulla. Più mezzi e più controllo non significano più sicurezza, ma più zone d’ombra in cui tutto può accadere senza testimoni. E il paradosso è devastante: ogni persona “persa” non è solo una vita che scompare, ma anche una prova che non potrà mai entrare in un fascicolo giudiziario, una storia che non potrà mai diventare notizia, una politica che non potrà mai essere valutata.

È qui che si misura il confine vero dell’Europa: non sulla cartina, ma nella capacità di scrivere il nome di una persona quando chiede aiuto. Se domani, alla stessa ora, quel telefono tornasse a vibrare tra i pini del distretto di Burgas, la differenza tra una vita salvata e un’altra sparizione dipenderà solo da questo: qualcuno registrerà quel contatto? O il bosco inghiottirà, ancora una volta, un nome destinato a non esistere?

Cosa dicono le norme europee (e dove si inceppano)

  • Il nuovo Regolamento UE 2024/1356 prevede che ogni persona intercettata alla frontiera sia sottoposta a “screening” con identificazione, rilevamento delle impronte, controllo sanitario e di sicurezza, e che venga indirizzata verso la procedura d’asilo o di rimpatrio. Lo stesso regolamento impone agli Stati di istituire un meccanismo di monitoraggio indipendente con poteri di accesso ai luoghi e ai documenti e la possibilità di avviare verifiche sulle violazioni.
  • In parallelo, la FRA (Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali) ha emanato linee guida su come impostare questi meccanismi in modo credibile e indipendente. Ma diverse analisi avvertono: se il monitoraggio copre solo la fase di screening e non le operazioni di intercettazione e sorveglianza dove maturano i respingimenti, il sistema rischia di non vedere la parte più critica.

Che cosa serve, davvero, per non perdere più nessuno

Se si vuole spezzare il ciclo “intercettazione respingimento scomparsa”, servono misure puntuali e verificabili. In base alle norme europee e alle buone pratiche già testate in altri paesi, ecco quattro interventi concreti:

  • Identificazione “al primo contatto” con prova digitale. Ogni pattuglia dovrebbe registrare in tempo reale un identificativo univoco (anche anonimo) associato a luogo, ora, condizioni di salute e volontà di chiedere asilo. La registrazione va inviata a un registro centrale consultabile dal meccanismo indipendente di monitoraggio e notificata a Eurodac quando scattano i presupposti legali. Questo riduce il margine per “riammissioni” senza traccia.
  • Accesso garantito e verifiche a sorpresa. Il meccanismo indipendente deve poter effettuare ispezioni non annunciate nelle aree di pattugliamento e non solo nei centri, con poteri di audizione e preservazione delle prove (video, geodati, comunicazioni radio). Le linee guida FRA forniscono un modello operativo, ma servono risorse e volontà politica.
  • Dotazioni e accountability. Telecamere body‑cam obbligatorie per le pattuglie in prossimità della frontiera, con conservazione dei filmati sotto controllo del difensore civico o di un’autorità indipendente. Sulle unità cinofilevanno introdotti protocolli stringenti e audit periodici con sanzioni automatiche in caso di violazioni.
  • Integrazione del soccorso civile. La linea 112 e le centrali operative di frontiera devono riconoscere e integrare le hotline umanitarie attive nell’area, con protocolli di risposta e triage sanitario. I casi dei tre ragazzi egiziani dimostrano che la “finestra d’oro” per salvare vite si gioca in poche ore, e richiede cooperazione, non ostilità.

Perché questa frontiera riguarda tutti

La Bulgaria non è un’eccezione isolata. La giurisprudenza di Strasburgo e le inchieste giornalistiche mostrano che le devoluzioni sommarie sono un problema europeo. Tuttavia, qui gli ingredienti si sommano: un confine terrestre lungo e difficile, una pressione politica legata a Schengen, un apparato di controllo rafforzato e una debolezza storica degli strumenti indipendenti. È il mix che produce il paradosso: più mezzi, più burocrazia, ma meno diritto sul ciglio del bosco.

La soluzione non passa soltanto da budget e blindature. Richiede trasparenza, monitoraggio credibile, e soprattutto una scelta di campo: accettare che la sicurezza senza diritti genera insicurezza per tutti. Perché ogni persona “persa” nella notte del confine è anche una prova persa per i tribunali, una notizia che non si può scrivere, una politica che non si può valutare.

Se domani, alla stessa ora, quel telefono tornasse a vibrare, la differenza tra una vita salvata e un’altra sparizione dipenderà da questo: qualcuno registrerà quel contatto? Ci sarà un protocollo che impone di intervenire e di lasciare una traccia? O il bosco avrà inghiottito, ancora una volta, il nome di qualcun altro?

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