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G20 a Johannesburg senza Washington: l’arte (fragile) del consenso nell’anno africano

Assenze pesanti, veti incrociati e un’agenda ambiziosa: perché il vertice potrebbe chiudersi senza una dichiarazione congiunta dei leader e cosa sta davvero in gioco su clima, materie prime, parità di genere e Ucraina

 G20 a Johannesburg senza Washington: l’arte (fragile) del consenso nell’anno africano

G20 a Johannesburg senza Washington: l’arte (fragile) del consenso nell’anno africano

All’alba di Johannesburg il G20 si sveglia zoppo. I cartelli luminosi del Nasrec Expo Centre ripetono come un mantra “Solidarity, Equality, Sustainability”, ma basta un colpo d’occhio per capire che quelle tre parole rischiano di rimanere slogan vuoti. Una sedia, all’interno del perimetro blindato, resta ostinatamente vuota: quella degli Stati Uniti. È l’assenza che pesa più di tutte e che potrebbe trasformare il vertice dei Grandi nel primo, dal 2008, a chiudersi senza una dichiarazione finale. Il consenso, qui, è un’arte fragile. E stavolta rischia di andare in frantumi.

Secondo fonti sudafricane, Washington ha già fatto sapere che non firmerà alcuna dichiarazione dei leader, al massimo una tiepida sintesi di presidenza. Niente che abbia il peso politico necessario a guidare la macchina del G20 nei mesi successivi. Il che, considerando che dal 1° dicembre la presidenza passerà proprio agli Stati Uniti, suona come una contraddizione vivente. Ma Donald Trump, il 7 novembre 2025, ha deciso che no, al summit non manderà nessuno. Nessun funzionario, nessuna presenza simbolica, nessuna stretta di mano. Ha accusato il governo sudafricano, è stato smentito da Pretoria, ha alzato il tono come sempre e ha chiuso la porta. Il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa ha replicato con un sorriso tirato e una frase che vale quanto un colpo di gong: “È una perdita loro. Il vertice andrà avanti con o senza l’America”.

Dietro la facciata, però, la questione è ben più seria. Quando un G20 si chiude con un semplice “Chair’s Statement” significa che il consenso si è incrinato sul serio. In passato è accaduto ai ministri, mai ai capi di Stato. La differenza non è solo semantica: una dichiarazione dei leader pesa nella diplomazia come un timbro indelebile, una sintesi della presidenza molto meno. A Bengaluru, Gandhinagar e Rio lo hanno già sperimentato: sul linguaggio sull’Ucraina non si trovava l’accordo e si è dovuti ricorrere a formule annacquate. Stavolta rischia di andare anche peggio. Johannesburg potrebbe diventare il caso zero del vertice senza firma.

La presidenza sudafricana, che voleva trasformare il “primo anno africano” del G20 in una svolta storica, ora deve giocare su un campo minato. Le priorità di Pretoria – debito, finanza per la transizione, minerali strategici e resilienza ai disastri – restano tutte sul tavolo, ma ogni frase è una trincea. Mentre i negoziatori provano a far stare insieme “solidarity, equality, sustainability”, i paesi africani spingono per riformare un sistema che li penalizza da decenni: costo del capitale troppo alto, premi di rischio ingiustificati, flussi finanziari climatici ridicoli rispetto ai bisogni reali. Pretendono che la transizione energetica non sia una condanna per i produttori di materie prime, che la beneficiazione locale non resti l’ennesima promessa non mantenuta, che la catena del valore dei minerali critici non continui a essere dominata da chi raffina e non da chi estrae.

Ed è proprio sulle materie prime che si apre una delle faglie più profonde. La richiesta africana è semplice: più valore resta dove vengono estratti i minerali. Ma si scontra frontalmente con le strategie di Stati Uniti, UE, Cina, India e Giappone, tutti ossessionati dalla sicurezza delle proprie supply chain. Dietro la formula “responsible sourcing” si nasconde spesso un tira e molla furioso su standard, certificazioni, requisiti ambientali che rischiano, se mal calibrati, di trasformarsi in barriere non tariffarie travestite da buone intenzioni. E Pretoria lo sa benissimo.

Sul clima, la situazione è ancora più tesa. Il ministro sudafricano Gwede Mantashe ha accusato apertamente l’Occidente di imporre agli africani il costo di una transizione progettata altrove, con strumenti che penalizzano proprio chi ha minori emissioni storiche e maggiore vulnerabilità. Con gli Stati Uniti fuori dal tavolo, la Cina e l’India pronte a giocarsi ogni margine di flessibilità e l’Europa decisa a difendere il proprio impianto regolatorio, trovare una formula condivisa su carbone, metano e finanza privata è un esercizio che somiglia più al funambolismo che alla diplomazia.

Poi c’è il capitolo “gender”, congelato da almeno 18 paragrafi ancora aperti. Sotto la presidenza brasiliana del 2024, tutti tranne l’Argentina firmarono una dichiarazione forte sull’empowerment femminile. Ora, con gli USA di Trumpirrigiditi e un clima culturale meno propenso ai compromessi, persino una dichiarazione ministeriale rischia di diventare un campo minato. Per non parlare del dossier più esplosivo di tutti: la guerra in Ucraina. Qui il pendolo è ben noto. A Nuova Delhi nel 2023 è stato scelto un linguaggio neutrale, a Rio nel 2024 ancora più annacquato. Mosca e Pechino non accetteranno altro, mentre molti paesi occidentali spingono per almeno qualche riferimento a sovranità e integrità territoriale. Impossibile immaginare un testo più forte di così. Possibilissimo immaginare uno scontro finale.

Paradossalmente, senza gli Stati Uniti alcuni capitoli tecnici stanno avanzando più velocemente. I sous-sherpa continuano a lavorare su finanza climatica, riforma delle banche multilaterali, AI per lo sviluppo e governance dei dati come se nulla fosse. Lo stesso è accaduto nel Finance Track a Durban nel 2025: i ministri hanno partorito una comunicazione congiunta nonostante l’assenza del segretario al Tesoro americano. Ma gli aspetti tecnici non bastano a salvare un G20 se la parte politica esplode.

Il vertice africano resta comunque un momento di rottura. L’Unione Africana siede finalmente come membro pieno. Le materie prime critiche non sono più un allegato tecnico ma il cuore della discussione globale. La finanza climatica non si misura più in vaghi “impegni” ma in premi di rischio, flow reali, costi di capitale. Johannesburg è la dimostrazione di quanto sia cambiata la geografia del potere: il baricentro si sta spostando, che piaccia o no, verso Sud. Ma questo spostamento rischia di rimanere incompiuto se il vertice si chiuderà con un documento “mozzato”.

Nelle prossime 48 ore la scena può evolvere in tre direzioni: un compromesso last-minute con una dichiarazione firmata dai presenti; una doppia uscita, con dichiarazione politica più Chair’s Statement tecnico; oppure, lo scenario più probabile, una semplice sintesi della presidenza. Nessuno dei tre evita il punto politico: il G20 si ritrova senza la potenza che per anni ne ha garantito la tenuta, e il salto nel vuoto è evidente. La scelta di Trump di disertare il summit si traduce in un test di credibilità per il formato stesso. Funziona ancora un G20 senza Stati Uniti? O è diventato un guscio vuoto tenuto insieme più dall’inerzia che dal consenso?

Per il Sud globale, e per l’Africa in particolare, è la domanda finale a pesare di più. Perché al di là dei rituali, delle foto e delle sedie vuote, la partita vera si gioca su ciò che resterà dopo. Se da Johannesburg usciranno impegni concreti su debito, finanza climatica e minerali critici, il continente potrà rivendicare un anno di protagonismo reale. Se invece prevarrà un finale sfilacciato, senza traiettorie operative, l’“anno africano” rischia di ridursi a un titolo suggestivo e poco più. In un mondo dove ogni aggettivo può far saltare un negoziato, il G20 africano mette l’Africa al centro del foglio. Ma lascia anche una domanda sospesa: basterà?

Chi sono?

l G20 (Gruppo dei Venti) non è un'organizzazione con infrastrutture proprie, ma un forum politico-economico che riunisce le principali economie del pianeta: 19 Paesi + l’Unione Europea (dal 2023 anche l’Unione Africana come membro permanente).

Ecco chi sono i membri del G20:

Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti, Unione Europea.
Dal 2023 siede come membro pieno anche l’Unione Africana.

Insieme rappresentano:

  • circa l’85% del PIL mondiale

  • il 75% del commercio globale

  • circa due terzi della popolazione del pianeta

Il G20 non crea leggi vincolanti, ma stabilisce indirizzi politici globali su economia, finanza, clima, commercio, energia, sviluppo, tecnologia. È un tavolo di potere: quello dove i grandi decidono cosa accadrà al resto del mondo.

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