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L’Iran affoga senza pioggia: tra preghiere, chimica e propaganda il Paese scopre che la siccità non si semina

Dopo la missione di cloud seeding su Urmia e gli allagamenti a ovest, Teheran cerca un colpevole mentre dighe prosciugate, falde esauste e decenni di scelte sbagliate mostrano che nessun aereo può riscrivere la meteorologia di un Paese in ginocchio

L’Iran affoga senza pioggia: tra preghiere, chimica e propaganda il Paese scopre che la siccità non si semina

L’Iran affoga senza pioggia: tra preghiere, chimica e propaganda il Paese scopre che la siccità non si semina

All’alba, ad Abdanan, capoluogo di una valle bruciata dalla sete nell’Ilam, è stata l’acqua – quando ormai nessuno la aspettava più – a spezzare il silenzio. Ha ruggito nei canali crepati, ha invaso cortili e botteghe come un ospite inatteso e brutale, ha fatto saltare muretti cotti dal sole con la violenza di chi torna dopo mesi di assenza e trova una casa che non riconosce più. Poche ore prima, dall’altra parte del Paese, sulle rive scheletriche del lago di Urmia, un aereo governativo aveva liberato nell’aria i soliti cristalli di ioduro d’argento: minuscole scintille chimiche lanciate come un’elemosina al cielo, nella speranza di convincerlo a mollare qualche goccia. L’idea era seminare la pioggia; la realtà è che la pioggia è caduta altrove, e in abbondanza. Sulle province occidentali, fino al Kurdistan iraniano, dove l’acqua ha fatto quello che fa sempre quando trova un territorio prosciugato, impermeabile, esasperato: scorre, trascina, allaga. E mentre la Mezzaluna Rossa interveniva nei villaggi sommersi, le autorità a Teheran ripetevano ancora l’appello nazionale alla preghiera collettiva. Gli aerei avevano compiuto la prima missione di stagione. Ma i meteorologi, stavolta, non hanno lasciato spazio alla fantasia: quel fronte stava arrivando comunque, lo sapevano tutti quelli che avevano il coraggio di guardare i modelli e non le invocazioni.

Il punto è che l’Iran sta vivendo la crisi idrica più feroce degli ultimi cinquant’anni. Lo dice la Meteorological Organization, che parla di un deficit pluviometrico dell’85-89% rispetto alla media. Lo confermano le dighe, con diciannove bacini ormai prossimi allo zero tecnico. E lo grida Teheran, dove la diga di Latyan ha toccato un misero 9%, lasciando interi quartieri a intermittenza idrica, come un vecchio televisore degli anni Settanta. In questa atmosfera di collasso, il presidente Masoud Pezeshkian si è spinto a evocare persino la possibilità di una evacuazione parziale della capitale: un’ipotesi che nessuno, fino a qualche anno fa, avrebbe pronunciato senza essere preso per folle. Invece oggi è sul tavolo, accanto ad altre misure drastiche che sembrano più rassegnazioni che strategie.

La tragedia è che la fisica dell’acqua non guarda in faccia nessuno. Se prosciughi il territorio, se cementifichi, se spremi falde e bacini fino all’osso, quando finalmente piove, piove male. L’acqua non penetra: scappa, corre, devasta. E così tra Ilam e Kurdistan una pioggia intensa ma non eccezionale si è trasformata nel solito film di flash flood, evacuazioni, fango e sirene. Nel frattempo, nel Paese che alterna inviti alla salat al-istisqā’ e voli di cloud seeding, si continua a coltivare l’illusione che basti un rituale antico o una tecnologia moderna per piegare una crisi che affonda le radici in decenni di errori, incuria e ostinazione.

La prima operazione di semina dell’anno idrologico è avvenuta il 15 novembre 2025, con un volo dell’Organizzazione per lo Sviluppo e l’Operatività delle Tecnologie Atmosferiche Avanzate, sotto il Ministero dell’Energia. Il responsabile, Mohammad-Mehdi Javadianzadeh, ha spiegato che verranno sfruttati “tutti i sistemi in ingresso favorevoli alla semina”. In realtà, su Teheran non se ne parla: mancano proprio le condizioni minime. Ma il Paese aveva bisogno di un segnale, di un gesto, di un titolo da distribuire tra Fedeli e Ottimisti di Stato. E così l’aereo è decollato. Che poi, poche ore dopo, un temporale abbia allagato l’ovest iraniano, è bastato per scatenare la solita caccia al colpevole, con il cloud seeding trasformato nella versione meteorologica del mostro di Loch Ness: quando serve, lo si tira fuori.

Ma due fatti restano impossibili da ignorare, anche per chi preferisce la magia alle mappe. Primo: Urmia sta centinaia di chilometri a nord delle zone finite sott’acqua. Secondo: la cella convettiva che ha colpito Ilam e Kurdistan era parte di un fronte ampio, già previsto, già monitorato, già annunciato. Nessun velivolo, nessuna manciata di ioduro d’argento ha la forza di generare un’alluvione regionale, né di spostare un sistema nuvoloso su scala sinottica. E infatti gli esperti – quelli veri, non gli improvvisati meteorologi da ministero – lo ripetono da anni: nella migliore delle ipotesi, la semina può aumentare di qualche punto percentuale una precipitazione che sarebbe comunque avvenuta. Non c’è nessuna prova seria che possa creare nubifragi, alluvioni o miracoli.

Le stesse accuse erano volate nel Golfo, dopo le piogge storiche sugli Emirati nel 2024. Anche lì si era urlato alla “pioggia artificiale fuori controllo”. Anche lì la scienza aveva risposto con la brutalità dei fatti: le precipitazioni erano state previste giorni prima, la semina non era in corso nel momento critico, il vero motore era una configurazione atmosferica potenziata dal clima più caldo, aggravata da infrastrutture urbane inadatte. È sempre la stessa storia: quando piove troppo, si cerca un colpevole; quando non piove affatto, si chiede un miracolo.

E allora si torna alle domande che contano davvero. Cosa può fare, concretamente, il cloud seeding in un Paese che ha prosciugato i propri bacini, dimenticato la manutenzione, costruito industrie idro-esigenti nel mezzo di aree desertiche? Può aiutare un po’, in inverno, sulle catene montuose. Può forse anticipare o intensificare leggermente alcuni rovesci già in atto. Può essere uno strumento accessorio, mai centrale. Quello che non può fare è salvare un sistema allo stremo, sostituire politiche agricole dissennate, trasformare la siccità in pioggia, o impedire una crisi ventennale che nessun aereo potrà mai compensare.

Intanto, a Teheran, le immagini delle preghiere collettive all’Imamzadeh Saleh convivono con le file per comprare cisterne domestiche e con i comunicati ufficiali che chiedono ai cittadini di ridurre del 20% i consumi. È un Paese sospeso tra fede, modernità e un emergenzialismo che ha perso qualunque forma di credibilità. La responsabile della meteorologia nazionale, Sahar Tajbakhsh, ha usato parole studiate ma chiarissime: la semina è costosa e produce quantità d’acqua che non basteranno mai a colmare il fabbisogno iraniano. Un modo elegante per dire che il problema non si risolve in cielo, ma per terra.

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E in mezzo a questa tempesta, resta Urmia: un lago un tempo immenso, oggi quasi scomparso, ridotto a deserto salato. La sua agonia è il monumento nazionale al fallimento della gestione idrica. Non a caso il governo ha scelto proprio quel bacino come bersaglio simbolico della semina: non tanto perché funzionerà, ma perché Urmia è la cartolina perfetta per mostrare che “qualcosa si sta facendo”. Ma senza tagliare i consumi agricoli, modernizzare l’irrigazione, controllare i pozzi illegali, fermare la subsidenza di Teheran e ricostruire i flussi minimi, tutto il resto è teatro.

E così la settimana della pioggia contesa – preghiere, semina, allagamenti – racconta una verità che nessuna propaganda può riscrivere. La pioggia che ha colpito l’ovest iraniano sarebbe arrivata comunque. Il cloud seeding non è la causa delle alluvioni né la cura della siccità. È un gesto scenico, utile solo se inserito in una strategia che finora non si è vista. L’acqua, quando arriva, non perdona. E non si lascia ingannare da rituali o tecnologie usate come scudo politico. In un Paese dove il terreno è duro come la politica che lo governa, la soluzione non scende dall’alto: si costruisce. Goccia dopo goccia, decisione dopo decisione, ammesso che qualcuno abbia finalmente il coraggio di prendere quelle giuste.

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