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Esteri
08 Novembre 2025 - 18:14
Tre ragazze volevano fare strage a Parigi
L’ultima chat nel cuore della notte. Poche righe, qualche emoji, link a video di propaganda, e parole che non lasciano spazio ai dubbi: bar affollati, una sala da concerti, colpire presto. Quando gli agenti della DGSI bussano a tre porte — una a Lione, una a Villeurbanne, un’altra a Vierzon — il calendario segna i primi giorni di ottobre e la Francia si prepara a ricordare i dieci anni del 13 novembre 2015. Le tre giovani, di 18, 19 e 21 anni, vengono fermate. Quattro giorni dopo, il 10 ottobre, finiscono sotto inchiesta formale e in custodia cautelare per associazione con finalità di terrorismo. A confermare tutto è il Parquet nazionale antiterrorismo (PNAT), dopo le prime rivelazioni di RTL e di altre testate francesi che seguono il dossier. Non un progetto definito nei dettagli, ma con target potenziali chiari e familiari a chiunque viva una grande città: la fragilità del quotidiano.
Secondo le informazioni disponibili, le tre sospettate — tutte cittadine francesi — avrebbero discusso per settimane di un’azione violenta da compiere a Parigi, citando più volte una sala da concerti o dei bar come possibili obiettivi. I fermi sono avvenuti tra Lione, Villeurbanne e Vierzon, al culmine di un monitoraggio della DGSI avviato da mesi e scattato in piena estate, dopo l’emersione online del profilo di una presunta meneuse, la figura centrale del gruppo, già intercettata in ambienti sotto osservazione. Il 10 ottobre le tre vengono messe in stato d’accusa e successivamente incarcerate. Il PNAT ha confermato i provvedimenti, sottolineando che la vicenda rientra nel quadro dei progetti di attacchi sventati nel 2025.
Le indagini indicano che il gruppo avrebbe scambiato messaggi su piattaforme come Snapchat, TikTok e Telegram, con contenuti di propaganda jihadista e conversazioni che evocavano l’uso di armi da fuoco e persino di una cintura esplosiva. Una delle tre, secondo le ricostruzioni giornalistiche, gestiva un account TikTok con circa ventimila follower, in cui pubblicava contenuti apologetici. Questi dettagli, pur non provenendo da documenti ufficiali resi pubblici, sono stati riportati da più testate francesi che citano fonti inquirenti e di polizia giudiziaria. È necessario, dunque, mantenere prudenza: si tratta di elementi plausibili, ma in parte ancora informativi di fonte giornalistica, che potranno essere chiariti solo in sede processuale.
Il fascicolo è stato affidato alla DGSI su delega del PNAT con l’ipotesi di associazione di malfattori con finalità di terrorismo, un reato cardine dell’arsenale francese che consente di intervenire anche su progetti non ancora giunti alla fase operativa. È la logica preventiva dell’antiterrorismo francese: seguire le conversazioni, mappare i contatti, intervenire prima che l’irreversibile accada. Una forma di tutela che, dopo il 2015, si è consolidata nelle prassi giudiziarie e di intelligence, soprattutto quando la radicalizzazione passa per le reti sociali, dove la soglia d’accesso è minima.
Le tre giovani delineano profili femminili molto giovani, isolati, segnati da un rigorismo identitario e da convinzioni salafite maturate in rete. È il mix ormai tipico della radicalizzazione digitale: consumo compulsivo di propaganda, immersione in gruppi chiusi e in bolle virtuali dove la narrativa vittimista e la glorificazione della violenza creano un senso di appartenenza distorto. Gli apparati francesi osservano da anni un abbassamento dell’età media dei soggetti coinvolti e un ricorso crescente al reclutamento online, spesso autoindotto. Non è irrilevante che si tratti di un gruppo tutto al femminile. Nella storia del jihadismo francese, la partecipazione diretta delle donne alla fase operativa di un attentato è rara, sebbene non senza precedenti: celebre il caso della cosiddetta “cellula delle bonbonnes”, legata al tentato attacco vicino a Notre-Dame nel 2016. Gli inquirenti definiscono questa nuova cellula “inconsueta”, notando come sia il primo progetto con coinvolgimento femminile da alcuni anni.

Il momento scelto non è casuale. Nel novembre 2025 la Francia ricorderà il decennale del 13 novembre, data simbolo degli attentati al Bataclan e ad altri luoghi di Parigi. Ricorrenze e anniversari sono da sempre catalizzatori di emulazione e ispirazione per il jihadismo. Gli obiettivi evocati — bar, sale da concerto — sono i cosiddetti soft target: spazi quotidiani, senza difese complesse ma ad alto impatto emotivo, dove un singolo gesto può generare paura diffusa. È su questi punti deboli che il piano Vigipirate concentra l’attenzione, mantenendo da mesi il livello “Urgence attentat” e rafforzando la sorveglianza su luoghi pubblici, istituzioni, trasporti e luoghi di culto.
Il Ministero dell’Interno ha più volte segnalato, tra 2024 e 2025, una mutazione della minaccia: età sempre più giovane, motivazioni ibride, accesso semplificato a materiali e manuali online. Secondo i dati ufficiali, nel 2024 sono stati nove i progetti di attentato sventati in Francia; nel 2025, al 17 ottobre, la DGSI ne contava quindici neutralizzati tra i due anni, sei solo nel 2025. La minaccia resta endogena, frammentata, ma costante, alimentata dalla propaganda digitale e dall’effetto imitativo dei social.
Il PNAT ha aperto l’inchiesta il 10 ottobre, confermando l’incriminazione e la detenzione preventiva delle tre giovani. Le prime notizie sono state diffuse da RTL e poi riprese da AFP e da altre testate, con un impianto coerente: obiettivi a Parigi, contatti via social, ipotesi di armi e cinture esplosive. Alcuni dettagli, come il ruolo della “meneuse” e il numero dei follower, restano ancora da verificare, ma ricorrono in più fonti convergenti.
Con il livello Vigipirate al massimo, è prevedibile un’ulteriore intensificazione della presenza delle forze dell’ordine attorno a eventi culturali, concerti, aree della movida e stazioni. Più controlli a campione, più ispezioni di borse e zaini, più pattuglie miste con i militari. L’obiettivo è duplice: ridurre i bersagli esposti e incoraggiare la vigilanza partecipata dei cittadini, in linea con la filosofia della sécurité partagée. Un approccio che mira a saturare lo spazio d’azione potenziale e a scoraggiare i tentativi “artigianali” ma potenzialmente letali.
La vicenda riporta in primo piano il tema, mai risolto, del ruolo dei social network come acceleratori della radicalizzazione. TikTok, Snapchat e Telegram, con le loro logiche di viralità e moderazione debole, offrono terreni fertili per la microcelebrità radicale: un’identità fragile che trova forza nell’attenzione dei follower e nel consenso simbolico. Bastano pochi like per generare un senso di legittimazione. Se le indagini confermassero il ruolo dei social in questa trama, la discussione sulla responsabilità delle piattaforme e sulla cooperazione con le autorità si farebbe inevitabile.
Nei mesi scorsi, i vertici dell’intelligence francese hanno ribadito che la minaccia jihadista rimane endogena e frammentata, con soggetti nati e cresciuti in Francia, radicalizzati online, spesso senza contatti diretti con strutture organizzate. La traiettoria recente mostra l’ascesa dell’auto-addestramento, la discontinuità dei profili psicologici e la capacità delle reti terroristiche di ispirare più che di comandare. Da qui il nuovo paradigma operativo: intercettare le conversazioni il prima possibile e disinnescare micro-cellule informali prima che si traducano in azione.
Restano tuttavia molti punti da chiarire: l’eventuale approvvigionamento di armi o esplosivi, l’effettivo grado di avanzamento del piano, la presenza di mentori esterni e la tracciabilità digitale delle prove. Per ora le autorità mantengono il massimo riserbo, bilanciando la necessità d’informare con quella di proteggere fonti e metodi investigativi.
Casi come questo insegnano molto sulla resilienza delle città europee. Proteggere la quotidianità — un bar, una sala da concerto, un festival — significa formare il personale alla lettura dei segnali precoci, pianificare evacuazioni, rafforzare la collaborazione con le forze dell’ordine e utilizzare tecnologie compatibili con la privacy. Spesso basta un controllo in più, un canale diretto con il commissariato, un gesto di attenzione per trasformare un intento in un fallimento operativo. È la logica della sicurezza diffusa, quella che rende le città più consapevoli e meno vulnerabili.
Parlare di terrorismo, oggi, significa anche resistere alle scorciatoie. Non tutto ciò che appare ideologia è privo di radici psicologiche o sociali, e non ogni allarme è davvero allarmismo. La sfida è costruire intorno ai più giovani una rete di anticorpi civili: scuola, famiglia, comunità, contro-narrazioni digitali efficaci. Gli apparati da soli non bastano. La sicurezza, ormai, è una coproduzione tra istituzioni e società.
E in questa storia, dove tre ragazze appena maggiorenni hanno sfiorato l’abisso della violenza, un dato emerge con limpida chiarezza: a fare la differenza, ancora una volta, è stata la capacità di riconoscere in tempo i segnali digitali e di fermare la traiettoria dell’odio prima dell’ultimo miglio.
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