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07 Novembre 2025 - 19:42
Cieli americani in tilt: lo shutdown blocca i voli e manda in crisi l’aviazione USA
Negli Stati Uniti il cielo si sta letteralmente restringendo. Non per colpa di una tempesta o di un guasto tecnico, ma per una paralisi politica che sta colpendo al cuore il sistema del trasporto aereo. Lo shutdown federale, il più lungo nella storia americana, ha costretto la Federal Aviation Administration (FAA) a una mossa senza precedenti: tagliare fino al 10% dei voli in 40 tra i maggiori aeroporti del Paese, per garantire la sicurezza di un sistema ormai al limite. La voce metallica che invita i passeggeri a imbarcarsi “solo se strettamente necessario” risuona come un avvertimento. Sui monitor degli aeroporti da Newark ad Atlanta, da Chicago O’Hare a Denver, il rosso delle scritte “cancellato” e “ritardo” racconta più di mille parole: non è il maltempo a fermare gli aerei, è la politica.
Ma cosa sta succedendo, esattamente? Con lo shutdown, ovvero il blocco del bilancio federale dovuto al mancato accordo tra Congresso e Casa Bianca, migliaia di dipendenti pubblici sono stati messi in congedo forzato o stanno lavorando senza stipendio. Tra questi ci sono 13.000 controllori di volo e decine di migliaia di addetti TSA, la sicurezza aeroportuale. Considerati “essenziali”, devono continuare a lavorare anche senza paga. Ma dopo più di un mese senza stipendio, il morale è a terra, i turni sono scoperti, e il rischio di errore aumenta. La FAA ha quindi deciso di ridurre preventivamente il traffico per evitare che la stanchezza o la carenza di personale possano compromettere la sicurezza. Una scelta drastica, ma inevitabile.

Il taglio parte dal 4% dei voli domestici, concentrato nelle ore di punta tra le 6 e le 22, e potrà salire al 10% se lo shutdown non verrà risolto entro metà novembre. La misura riguarda i principali hub del Paese: Hartsfield–Jackson Atlanta, Chicago O’Hare, Newark, Dallas–Fort Worth, Denver, San Francisco, Houston Intercontinental, Washington Dulles, Boston Logan, Anchorage e Honolulu. È un taglio orizzontale, pensato per distribuire in modo equo la riduzione e alleggerire lo stress sulle torri di controllo. Ma gli effetti si sentono già: ritardi medi di oltre un’ora, cancellazioni a catena e passeggeri bloccati nei terminal.
Le compagnie aeree hanno reagito adeguandosi alle direttive della FAA. United Airlines ha ridotto i voli del 4% e parla di “meno di 200 cancellazioni al giorno”, Delta Air Lines ha tagliato circa 170 rotazioni nella prima giornata, American Airlines ha cancellato oltre 220 voli mantenendone 6.000 in servizio. Southwest Airlines ha scelto di cancellare in anticipo e riproteggere automaticamente i passeggeri, offrendo flessibilità fino al 12 novembre. JetBlue e Frontier hanno annunciato rimborsi completi per chi preferisce rinunciare al viaggio. Solo nel primo giorno di applicazione della misura, oltre 700 voli sono stati cancellati, un numero che rappresenta circa il 3% del traffico nazionale.
Dietro le statistiche ci sono persone. I controllori del traffico aereo non sono macchine: lavorano in turni serrati, spesso in postazioni critiche dove la concentrazione non può calare nemmeno per un secondo. Lo stress accumulato, la mancanza di retribuzione e i turni straordinari senza fine hanno fatto scattare un campanello d’allarme nei report di sicurezza dei piloti. La FAA ha deciso di agire prima che la situazione degeneri. In un comunicato, l’amministratore Bryan Bedford ha dichiarato che “stiamo vedendo segni di stress nel sistema, e ridurre temporaneamente i voli è l’unico modo per garantire che gli americani continuino a volare in sicurezza”.
Gli effetti per i passeggeri sono tangibili. Nei grandi hub la congestione è tornata a livelli pre-pandemia, con terminal pieni e tempi d’attesa interminabili. Chi deve viaggiare è invitato a controllare costantemente lo stato del volo, a pianificare coincidenze più ampie e, se possibile, a scegliere voli nelle prime ore del mattino, quando l’effetto domino dei ritardi è ancora limitato. In caso di cancellazione, tutte le principali compagnie hanno attivato rimborsi integrali e riprotezioni automatiche, anche per le tariffe normalmente non rimborsabili. I voli internazionali vengono protetti con priorità, ma i collegamenti regionali – quelli tra piccole e medie città – sono i più esposti ai tagli.
Il problema, però, non si ferma agli aeroporti. Lo shutdown è il sintomo di un malessere politico che si trascina da anni, aggravato da uno scontro tra Congresso e amministrazione sul bilancio federale e sul tetto del debito. In assenza di un accordo, il governo non può finanziare le proprie agenzie: i musei Smithsonian sono chiusi, i programmi sociali rallentati, le infrastrutture paralizzate. Ora la crisi tocca anche l’aviazione, un settore che negli Stati Uniti è sinonimo di mobilità, lavoro e libertà di movimento.
Se la paralisi continuerà, dal 14 novembre la riduzione salirà al 10%, portando la rete aerea americana a un livello di saturazione pericoloso. Le compagnie stanno già preparando piani d’emergenza, con equipaggi e manutenzioni ridotti, e nuove strategie di rete per mantenere attivi i voli intercontinentali. Ma ogni giorno di shutdown costa milioni di dollari e mina la fiducia dei passeggeri.
Per i viaggiatori europei e italiani, gli effetti si sentono soprattutto sulle coincidenze interne. Un volo da Roma o Milano può atterrare regolarmente a New York, Boston, Washington, Chicago o Miami, ma il collegamento successivo verso una città americana più piccola rischia di saltare. Le compagnie europee, come ITA Airways, Lufthansa e Air France, stanno collaborando con i partner statunitensi per offrire alternative e ridurre i disagi.
Insomma, non è solo una questione di numeri o percentuali. È la dimostrazione di quanto la politica possa arrivare a pesare sulla vita quotidiana delle persone. Quando la macchina federale si ferma, anche il cielo si restringe. E in America, dove volare è parte della vita, lo shutdown non è più un problema di Washington, ma una questione nazionale che tocca milioni di cittadini, passeggeri e lavoratori che oggi, più che mai, stanno pagando il prezzo dell’immobilismo.
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