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22 Ottobre 2025 - 22:37
Il mare di Lampedusa, ancora una volta, si è trasformato in un cimitero. Il 19 ottobre, a poche miglia dall’isola, la Guardia costiera italiana ha soccorso 91 migranti stipati su un’imbarcazione di fortuna e ha recuperato due corpi senza vita. Quattordici persone erano in condizioni critiche, tre di loro intubate a bordo delle unità di soccorso per gravi problemi respiratori dovuti alle esalazioni di gas di scarico. Erano partiti dalla Libia, da coste che negli ultimi anni sono diventate uno dei principali punti di partenza delle rotte verso l’Europa. In mare, quella notte, c’erano anche le ombre di un altro naufragio: un barcone partito da Al Khums, sempre in Libia, con a bordo trentacinque persone. Di quelle vite, solo undici sono state salvate. Le altre, circa venti, risultano disperse. Secondo diverse organizzazioni non governative, le autorità italiane e maltesi erano state avvertite in tempo, ma non avrebbero risposto alle richieste d’aiuto.
La denuncia, arrivata da Alarm Phone, Sea-Watch e Mediterranea Saving Humans, ha riaperto il dibattito sulle responsabilità nel Mediterraneo centrale. Gli operatori umanitari hanno ricostruito le rotte e i tempi di comunicazione, sostenendo che l’area di soccorso di competenza era nota e che l’intervento sarebbe potuto avvenire molto prima. Le autorità italiane, dal canto loro, difendono la gestione delle operazioni, parlando di “coordinamento complesso” e “condizioni meteo avverse”. Ma l’ennesimo episodio conferma quanto la linea di confine tra omissione e impotenza resti sottile, e quanto la gestione dei soccorsi in mare sia divenuta terreno di scontro politico, più che di umanità condivisa.
Sara Kelany
In quelle stesse ore in cui il mare inghiottiva corpi e speranze, il Parlamento italiano decideva di mantenere in vigore il Memorandum Italia-Libia del 2017, un accordo che da anni divide opinione pubblica, esperti e istituzioni internazionali. Il documento, siglato il 2 febbraio 2017 a Roma da Paolo Gentiloni, allora presidente del Consiglio, e da Fayez al Serraj, capo del Governo di Accordo Nazionale libico, con la regia del ministro dell’Interno Marco Minniti, prevedeva un sostegno tecnico e finanziario alla Libia per contrastare l’immigrazione irregolare. Una collaborazione che include l’addestramento e il finanziamento della Guardia costiera libica, oltre al supporto logistico ai centri di detenzione per migranti.
Nelle intenzioni dei firmatari, il Memorandum avrebbe dovuto arginare i flussi di partenze e rafforzare la cooperazione contro i trafficanti di esseri umani. Nella realtà, è diventato uno dei pilastri della cosiddetta politica di “esternalizzazione delle frontiere”, ovvero la delega alla Libia – paese ancora instabile e privo di un reale controllo territoriale unitario – del compito di fermare i migranti prima che raggiungano le acque europee. Una strategia che negli anni ha permesso all’Italia e all’Unione Europea di ridurre gli arrivi, ma al prezzo di una lunga scia di violenze documentate nei centri di detenzione libici, dove le organizzazioni umanitarie raccontano di torture, abusi sessuali, estorsioni e condizioni disumane.
Le Nazioni Unite, Amnesty International, Human Rights Watch e la stessa Organizzazione Internazionale per le Migrazioni hanno più volte denunciato che la Libia non può essere considerata un “porto sicuro”. I migranti intercettati in mare dalla Guardia costiera libica, spesso con navi donate o finanziate da Roma e Bruxelles, vengono riportati in centri di detenzione dove, secondo testimonianze e rapporti ufficiali, si verificano violenze sistematiche. Si tratta di veri e propri respingimenti per procura, un meccanismo che consente ai Paesi europei di mantenere pulite le proprie statistiche di arrivi, spostando però il problema oltre i propri confini.
Nonostante ciò, la scorsa settimana la Camera dei deputati ha approvato una mozione presentata dalla deputata Sara Kelany, responsabile immigrazione di Fratelli d’Italia, che sostiene la prosecuzione della strategia basata sul Memorandum. Il governo ha difeso la scelta come necessaria per “contrastare i trafficanti e salvare vite”, mentre le opposizioni e numerose ONG hanno parlato di “scelta immorale”, sottolineando la continuità tra le politiche dei governi di centrodestra e quelle del centrosinistra.
Le accuse di “complicità italiana” si sono moltiplicate negli ultimi anni. La Libia, di fatto, non dispone di una struttura statale unitaria: la cosiddetta Guardia costiera è divisa in milizie locali, spesso in competizione tra loro e accusate di essere coinvolte proprio nei traffici di migranti. Diverse inchieste internazionali hanno documentato la presenza di comandanti che, da un lato, collaborano ufficialmente con le autorità italiane e, dall’altro, gestiscono reti di contrabbando e sfruttamento. Secondo fonti delle Nazioni Unite, in alcuni casi i fondi destinati alla cooperazione marittima sarebbero finiti direttamente nelle mani di gruppi armati.
I dati ufficiali raccontano un quadro complesso. Secondo l’OIM, dall’inizio dell’anno sono oltre 2.500 le persone morte o disperse nel Mediterraneo centrale, la rotta più letale al mondo. Nel solo mese di ottobre, almeno sei naufragi sono stati registrati tra la Libia e Lampedusa. Le partenze, nonostante gli accordi e i controlli, non si sono mai fermate. E chi viene riportato indietro spesso sparisce: detenuto senza processo, sfruttato, venduto come manodopera o merce di scambio.
L’Italia, da parte sua, difende l’accordo. Gli esecutivi che si sono succeduti – da Gentiloni a Conte, da Draghi fino a Giorgia Meloni – non hanno mai formalmente revocato il Memorandum. Anche l’Unione Europea, attraverso il Fondo fiduciario per l’Africa, ha continuato a finanziare programmi di supporto logistico e addestramento alla Guardia costiera libica. In sostanza, la strategia della delega è rimasta invariata: si paga la Libia perché fermi le partenze.
L’argomento più usato dai governi è quello della necessità. Senza la collaborazione libica, sostengono, i flussi aumenterebbero in modo incontrollato e l’Italia non potrebbe far fronte da sola agli arrivi. Ma i numeri dimostrano che le partenze dipendono più dalle condizioni politiche e militari nei paesi di origine e transito che dagli accordi bilaterali. Quando in Libia la situazione si destabilizza, le partenze crescono; quando cala la repressione, si spostano su altre rotte, come quella tunisina.
Sul piano politico, il Memorandum è diventato una linea di continuità trasversale. Marco Minniti, oggi a capo della Fondazione Med-Or del gruppo Leonardo, continua a difenderne la validità, sostenendo che “meglio un accordo imperfetto che il caos dei trafficanti”. Paolo Gentiloni, oggi commissario europeo per l’Economia, ha scelto il silenzio. Sara Kelany, invece, ha ribadito in Parlamento che la collaborazione con la Libia “ha contribuito a salvare vite e a rafforzare la sicurezza dei nostri confini”.
Dall’altra parte, le ONG ricordano che proprio quella strategia ha trasformato il Mediterraneo in una barriera armata. Negli ultimi anni sono aumentati gli episodi in cui le unità della Guardia costiera libica hanno sparato colpi d’arma da fuoco verso i barconi dei migranti o hanno ostacolato le navi umanitarie. L’ultima denuncia risale a pochi giorni fa, quando un’imbarcazione di soccorso tedesca ha riferito di essere stata minacciata mentre cercava di prestare aiuto a un gommone in difficoltà.
Sul fronte internazionale, la questione divide anche le istituzioni europee. Il Parlamento europeo ha chiesto più volte di rivedere il Memorandum, mentre la Commissione ne ha difeso la “funzione di cooperazione tecnica”. Alcuni Paesi, come la Germania, hanno espresso preoccupazione per le violazioni dei diritti umani, ma nessuna iniziativa concreta è stata presa per sostituire o riformare il meccanismo.
Intanto, a Lampedusa, i soccorritori continuano a lavorare in condizioni estreme. Le strutture di accoglienza sono al limite della capienza, con arrivi che in alcuni giorni superano le mille persone. I volontari raccontano di bambini esausti, donne incinte, uomini bruciati dal carburante che si mescola all’acqua del mare. La tragedia del 19 ottobre si aggiunge a una lista ormai interminabile. Ogni volta si parla di “dramma annunciato”, di “emergenza migratoria”, di “necessità di una soluzione europea”. Poi tutto si spegne, fino al prossimo naufragio.
Il Mediterraneo resta una frontiera contesa, un luogo in cui si incrociano geopolitica, interessi economici e disperazione. Le rotte non si fermano, cambiano solo direzione. Gli accordi, i finanziamenti, le missioni internazionali sembrano non riuscire a rispondere alla domanda più semplice: quante vite si possono sacrificare per proteggere un confine?
Forse il vero nodo, oggi, è proprio la distanza tra la percezione del fenomeno e la sua realtà. In Italia si discute di numeri, di percentuali, di quote. In mare, invece, ci sono persone che muoiono asfissiate in stive di legno, o che scompaiono nel buio della notte, senza nome e senza funerale. I soccorritori raccontano di telefoni satellitari che squillano nel vuoto, di chiamate di aiuto perse nel vento. È in quei minuti che si misura la differenza tra la politica e l’umanità.
L’Europa, in questi anni, ha scelto di delegare, di arretrare, di trasformare la solidarietà in controllo. E l’Italia, con il Memorandum del 2017 e con le sue proroghe, è diventata il laboratorio di questa strategia. A sette anni dalla sua firma, l’accordo continua a produrre effetti che nessuno sembra voler affrontare apertamente: finanziamenti a milizie, detenzioni arbitrarie, omissioni di soccorso e un mare che ogni giorno restituisce la prova di un fallimento collettivo.
Morale? Il 19 ottobre due corpi sono stati recuperati, altri non verranno mai trovati. La cronaca li chiama “migranti”, ma sono uomini, donne e bambini partiti da un inferno nella speranza di un futuro. Forse è questo che, nel tempo, si è perso tra le pieghe dei protocolli, delle mozioni e delle votazioni parlamentari: la memoria di ogni singola vita che il Mediterraneo continua a chiedere in cambio della nostra indifferenza.
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