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21 Ottobre 2025 - 23:23
Gustavo Petro
Le relazioni tra Colombia e Stati Uniti si sono incrinate come non accadeva da decenni. Dopo settimane di tensioni crescenti, il 20 ottobre il governo di Gustavo Petro ha deciso di richiamare a Bogotá l’ambasciatore Daniel García Peña per consultazioni. È un gesto forte, che nella diplomazia internazionale equivale a una dichiarazione d’allarme. Il motivo ufficiale è la sospensione, da parte di Washington, di alcuni programmi di cooperazione e finanziamento nel campo della sicurezza e dello sviluppo rurale. Ma dietro c’è molto di più: un deterioramento profondo dei rapporti tra due Paesi che, per oltre quarant’anni, erano alleati chiave nella cosiddetta “guerra alla droga”.
Tutto è esploso dopo un episodio avvenuto il 19 ottobre, quando la Marina statunitense ha annunciato di aver distrutto nel Mar dei Caraibi un’imbarcazione che, secondo le autorità di Washington, trasportava cocaina ed era gestita da un’organizzazione colombiana. Il governo di Petro ha reagito duramente, accusando gli Stati Uniti di aver compiuto un’azione militare unilaterale, senza informare Bogotá, e di aver violato la sovranità nazionale. Le parole del presidente colombiano sono state nette: «Non permetteremo che la lotta al narcotraffico diventi un pretesto per interventi esterni».
La scintilla politica l’ha poi fornita Donald Trump, che in un comizio elettorale ha definito Gustavo Petro “un signore della droga”, aggiungendo che “la Colombia non è più un partner ma un problema”. Dichiarazioni che hanno fatto esplodere la polemica. Petro ha replicato con toni infuocati: «La politica antidroga statunitense ha causato più morti e sofferenze in America Latina che lo stesso narcotraffico. È tempo di cambiare paradigma».
Dietro lo scontro verbale si nasconde un conflitto di visione profondo. Da quando è stato eletto, Petro – il primo presidente di sinistra nella storia colombiana – ha cercato di ridefinire le relazioni con Washington, spingendo per una strategia antidroga centrata sulla riduzione della domanda, sulla legalizzazione parziale e sullo sviluppo delle comunità rurali. Una linea che contrasta apertamente con quella americana, ancora fondata sulla repressione e sull’intervento militare.
Il richiamo dell’ambasciatore è dunque il culmine di una frattura già visibile. Gli Stati Uniti hanno reagito sospendendo parte dei fondi destinati al “Plan Colombia 2.0”, la nuova versione del programma di cooperazione avviato vent’anni fa. Si tratta di centinaia di milioni di dollari destinati a progetti di sicurezza, infrastrutture e formazione delle forze dell’ordine colombiane. La sospensione non è solo economica: è un segnale politico, una forma di pressione diplomatica che punta a isolare Petro sul piano internazionale.
Nel frattempo, a Bogotá, l’opposizione interna accusa il presidente di trascinare la Colombia in un conflitto inutile con il principale alleato commerciale. Alcuni ex ministri del governo Duque parlano di “suicidio diplomatico”, mentre le forze di sinistra difendono la scelta di affermare la sovranità nazionale. «Non possiamo continuare a essere il cortile di casa degli Stati Uniti», ha dichiarato il senatore Iván Cepeda, storico alleato di Petro.
La tensione rischia di avere anche ripercussioni economiche. Gli Stati Uniti restano il primo partner commerciale della Colombia: esportazioni di caffè, petrolio e prodotti agricoli dipendono in gran parte dal mercato americano. Washington, secondo indiscrezioni, starebbe valutando anche l’introduzione di dazi punitivi su alcune merci, mentre alcune aziende colombiane temono un effetto domino su investimenti e valuta.
Ma il nodo più delicato resta quello della sicurezza. Negli ultimi mesi la produzione di coca in Colombia è tornata a livelli record, nonostante gli sforzi di riduzione. Gli Stati Uniti imputano a Petro un eccessivo “buonismo” verso le comunità contadine coinvolte nella coltivazione, mentre il governo colombiano risponde che i metodi repressivi del passato hanno solo alimentato la violenza. «Non vogliamo più contadini morti per difendere statistiche che servono a Washington», ha detto in conferenza stampa la ministra della Giustizia Néstor Osuna.
Dietro lo scontro si intravede un cambiamento geopolitico più ampio. Petro, negli ultimi mesi, ha stretto rapporti sempre più stretti con Brasile, Messico e Venezuela, cercando di costruire un asse latinoamericano alternativo all’influenza statunitense. La sua politica estera punta a un equilibrio multipolare, in cui la Colombia non sia più un semplice esecutore delle strategie di Washington ma un attore autonomo.
Dall’altra parte, Donald Trump, in piena campagna elettorale, cavalca il tema della “guerra alla droga” per consolidare la sua base conservatrice. L’idea di un presidente colombiano di sinistra, ex guerrigliero e critico degli Stati Uniti, è perfetta per rilanciare il vecchio mantra del pericolo latinoamericano. La sua retorica aggressiva trova terreno fertile tra i repubblicani, e mette il Dipartimento di Stato in una posizione scomoda: dover gestire una crisi diplomatica nel cortile di casa proprio quando Washington cerca di contenere l’influenza di Pechino in Sud America.
Per ora, l’ambasciatore Daniel García Peña resta a Bogotá, in attesa di istruzioni. Il suo richiamo non significa rottura definitiva, ma segna un punto di non ritorno simbolico. È il primo richiamo di un ambasciatore colombiano dagli Stati Uniti dal 1989, anno dell’assassinio di Luis Carlos Galan, quando la cooperazione antidroga attraversò una crisi simile.
Nelle strade di Bogotá e di Cartagena, la gente commenta con fatalismo: «Sono sempre gli stessi che pagano le guerre dei potenti». Il narcotraffico continua, i contadini continuano a coltivare coca perché è l’unica fonte di reddito, e le bombe, reali o metaforiche, cadono sempre sugli stessi territori dimenticati. Dietro le grandi dichiarazioni di sovranità e le minacce di sanzioni, resta la solita realtà latinoamericana: un Paese costretto a scegliere tra dipendenza e isolamento, tra il vecchio ordine americano e un nuovo equilibrio ancora tutto da costruire.
E così, nel mare agitato dei Caraibi e nei palazzi del potere di Washington, si combatte una battaglia che va ben oltre il traffico di droga. È una guerra di parole, di potere e di dignità nazionale. E, come sempre, a farne le spese saranno i più deboli.
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